In una delle numerose divertentissime scene del film Boris, i tre autori si trovano in disaccordo sull’uso di un termine italiano (bisogna vs bisogni), la querelle velocemente si accende fino a quando uno dei tre non prende in mano il telefono e chiama un amico esperto, questo però non ha una opinione certa e promette di chiamare Umberto Eco per chiarire il dilemma.
Ecco in un film di oggi una scena del genere risulterebbe senza dubbio fuori luogo, i tre avrebbero sicuramente cominciato a consultare Google, il sito della Treccani o più probabilmente un qualsiasi tool di IA e in qualche modo avrebbero chiuso velocemente la disputa.
Dalla guerra fredda al primo clic
Se tutto ciò è possibile oggi lo dobbiamo in parte all’ansia da guerra fredda dell’esercito americano che fonda Arpanet, una rete di computer sicura, senza un centro, a prova di esplosione nucleare. Ma soprattutto lo dobbiamo ad un brillante fisico inglese (eh si la rete non è nata in California) dal nome di Tim Berners Lee che nel 1989 ha inventato il worldwideweb che sta ancora alla base dei siti, delle app e di tutti gli LLM che usiamo ancora oggi ogni secondo.
Tutta questa storia è raccontata con grande garbo e modestia dallo stesso Sir Tim in un libro appena uscito (per ora solo in versione inglese) dal programmatico titolo di This is for Everyone – The unfinished story of the worldwideweb. Un racconto assolutamente avvincente della vicenda umana, della evoluzione tecnologica, dell’impatto della rete sul business e soprattutto sulle conseguenze pubbliche e private sulla vita dei cittadini del pianeta.
Cercando di non svelare troppo tutti i dettagli e le considerazioni fatti dall’autore andiamo velocemente per macro temi per cercare di dimostrare il perché questo libro vada letto da chiunque abbia un minimo di curiosità sul mondo che ci circonda, partendo dalla considerazione che oggi il www impatta, senza ombra di dubbio, sulla vita di tutti noi.
L’uomo che inventò la rete
Partiamo dalla vicenda umana che è forse la prima cosa che colpisce nella lettura di questo racconto, diversamente da molti inventori di una qualsiasi app per pascolare i cani che a 29 anni si mettono a scrivere (o più probabilmente commissionano al proprio ufficio stampa) un volume di 800 pagine per spiegare come e perché, grazie alla loro brillante invenzione, hanno reso il mondo migliore, il tono del racconto qui, soprattutto se paragonato alla magnitudine della scoperta, è decisamente molto meno enfatico.
Figlio di due matematici inglesi, amanti della natura e dei viaggi, ma anche della nascente tecnologia informatica che li porta a lavorare anche nell’entourage di Alan Turing, il quale muore tragicamente pochi mesi prima della nascita del giovane Tim, cosa che avviene nel 1955, casualmente lo stesso anno in cui nascono anche Steve Jobs e Bill Gates.
Con una precoce passione per i computer fatti in casa, quando gli elaboratori dell’epoca occupavano una stanza ed i pc non erano ancora nati, ed una laurea in Fisica, Tim Berners Lee riesce ad entrare al CERN dove però invece di occuparsi di un nucleare di pace si dedica per il 110% del suo tempo ad un progetto collaterale che i suoi stessi capi, decisamente non ottusi come molti loro simili, definiscono “vago ma eccitante”
Qui si entra nella parte più tecnologica del racconto che però è resa sempre di facilissima lettura almeno per chiunque abbia mai cliccato un paio di volte un sito web.
La nascita del web e l’era dei link
La grande innovazione di Sir Tim è proprio la valorizzazione degli “ipertesti” (hyperlinks) un concetto che per noi oggi è la cosa più banale del mondo, il link posto in una parola o in un immagine che da una pagina o da un documento è ci porta ad un contenuto esterno. Ad uno spazio spesso ubicato al di fuori dal proprio computer o anche dalle prime reti locali, realtà che iniziavano a proliferare a fine anni 80 soprattutto in ambienti accademici o militari.
La magia del link va di pari passo con l’invenzione del celeberrimo http, il protocollo che permetterà l’apertura nel 1989 del primo sito web https://info.cern.ch e da qui a cascata del sito dell’Università di Stanford (ecco che si arriva in California) per arrivare a circa una decina di siti a fine 1992, 623 siti nel 1993, 2278 nel 1994, 25.000 nel 1995 e via così fino ad una stima di circa 17 milioni nel 2000.
L’idea di un web aperto in cui istituzioni e privati potessero aprire liberamente le proprie pagine e scambiarsi informazioni e appunto “link” con altre realtà, si incontra (o scontra) presto con chi, alla luce del boom del www, cerca da subito di provare a fornire dei servizi per iniziare a monetizzare in qualche modo su questo nuovo fenomeno.
E così inizia il racconto del vero e proprio business del web, inizialmente una scommessa su cui tanti si buttano, ma altrettanti restano alla finestra, come numerosi esponenti dell’industria, dei governi e dei media più tradizionali che ne sottostimano tragicamente l’impatto. Ma intanto nascono i primi motori di ricerca come Yahoo e i primi “portali” parolina magica per diversi anni, che inizia a descrivere una delle prime storture del we: il sogno dei giardini recintati in cui far entrare i propri clienti, ma lasciando loro accesso solo a certi spazi e non all’interezza dei dati e delle informazioni del web.
Dall’utopia all’etica del web
Ed è proprio da questa strada che si arriva alla maledizione dei social media e di certo digital advertising che prima influenza in maniera criminale le elezioni della Brexit e del primo Trump (si veda tutto il caso Cambridge Analytica), per poi arrivare, sempre nelle parole di Sir Tim, alla perversione della “tik tok addiction” il cui unico obiettivo non è più lo scambio di informazioni o di conoscenze, ma quello di tenere attaccati al video gli utenti in una insensata attività di scroll.
E queste sono le amare parole del nostro autore che introducono alle considerazioni etiche sullo stato del web a una trentina di anni dalla sua invenzione. Ma nonostante tutto la speranza indicata nel titolo del libro, non abbandona mai la mente e l’animo del suo inventore che auspica un colpo di coda dell’Intelligenza Artificiale a liberare nuove formule di libertà e di “empowerment” per i cittadini del futuro, abbattendo di nuovo (come nel 1989) i troppi muri e monopoli del web di oggi.
Solid e il futuro di internet
Utopia? Illusione? Parole al vento? Di sicuro il vecchio Tim non è rimasto con le mani in mano in questi anni e, assieme a tanti collaboratori, sempre in una logica di Open Source ha realizzato una nuova piattaforma decentralizzata denominata SOLID (Social Linked Data) che consente agli utenti di: archiviare i propri dati in contenitori personali chiamati PODs (Personal Online Datastores) – decidere quali applicazioni possono accedere a questi dati – separare i dati dalle app, evitando che vengano copiati o venduti senza consenso. Garantendo sempre a tutti gli utenti della reta la massima Privacy, Interoperabilità e Trasparenza.
Una tecnologia libera e aperta è oggi quindi disponibile, ma purtroppo il resto del problema si sposta ormai nella sfera politica, si veda il caso dell’Australia che blocca l’uso dei social media ai ragazzini. Ma è anche il punto di vista espresso dal saggista Giuliano da Empoli in un piccolo volume uscito da poco L’ora dei predatori in cui accosta i nuovi giganti del digital ai nuovi leader populisti, per molti aspetti assolutamente differenti, ma accomunati da un sentimento comune, il disprezzo per le regole, il mercato e la legge.

