Il fulcro rimane l’esperienza – #Dialoghi

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Quando abbiamo cominciato Dialoghi con Exlibris20 ci siamo dati come regola aurea quella di non lesinare anche il confronto, in puro stile narrativo si potrebbe dire.

D’altronde il conflitto fa parte della nostra esistenza.

Che sia stato codificato nelle storie come nel meccanismo che ci permette di maturare esperienza (e lo diremo spesso, quest’oggi) ci fa capire quanto evitarlo sia spesso più dannoso che altro.

Anche perché il conflitto è insito in un sistema cognitivo. Pur avendo un’accezione negativa, più che stato di tensione (cit) è una pulsione che opera in silenzio. Un moto a luogo che se governato genera crescita.

Fa esperienza, appunto, che è -incidentalmente- anche il fondamentale della narrazione.

Ripartire dall’esperienza

È questo il presupposto idelologico con cui abbiamo letto il pezzo di Silvia Acierno per Exlibris20, articolo che inaugura lato nostro i nostri Dialoghi.

Un bias che impedisce di applicare una certa flessibilità all’impiego di termini che ormai tratto alla stregua di reliquie cui garantire un rispetto sacrale.

Ha ormai un paio d’anni la battaglia campale intrapresa da chi vi scrive all’uso smodato del neologismo narrativa in luogo di narrazione.

(È solo uno degli aspetti cui personalmente ho votato la mia attività di ricerca (anche in altri luoghi, talvolta anche molto prestigiosi) ndr).

Ne abbiamo parlato anche qui.

Una ripetizione ossessiva alla ricerca compulsiva di depurare la coscienza collettiva da corto circuiti logici oltremodo dannosi.

Al di là di questo, concentriamoci su cosa ci ha raccontato Silvia e cosa questo mi ha portato a pensare.

Piccola precisazione. Conflitto, inteso come stato di tensione positiva e di reciproca crescita, c’è stato: un paragrafo in particolare ha attirato la nostra attenzione.

Devo riconoscere che, quando ho letto il titolo di questo saggio del filosofo sudcoreano, La crisi della narrazione, mi sono lasciata ingannare o autoingannata, confondendo velocemente la narrazione con la narrativa e quindi la scrittura.

Poco sottile, certe sfumature le scopro col tempo. E quando le scopro sono anche un po’ asina e preferisco lasciarle ai dizionari, torri che custodiscono il linguaggio e ai loro cultori. 

Per me la narrazione moderna sfocia nella narrativa che non è un genere ma mutazione, pagine che cambiano forma, gusci abbandonati, mute lasciate in giro o divorate.

Insomma, pensavo che si parlasse di letteratura: Peter Pan è una favola sulla crescita che una madre racconta ai figli, e che una figlia maggiore racconta ai suoi fratelli, e che quella figlia maggiore, una Wendy, racconterà ai suoi nipoti, e così via, mentre il narratore la sta scrivendo, in un corto-circuito temporale.”.

Riprendiamo dall’inizio

Byung-Chul Han è una figura molto importante della modernità. Filosofo che oggi vive in Germania, ma con chiare origini dell’Estremo oriente (è sud coreano) oggi entra spesso nei dibattiti sulla ricerca del senso nella società digitalizzata, in quanto ha saputo entrare nei meccanismi che regolano il racconto intermediato da piattaforme.

La sua è una bibliografia ricca, e La crisi della narrazione è un titolo che non è passato inosservato fra i cultori della materia.

Leggerlo però obbliga a passare dalle pagine di un altro autore fondamentale, citato peraltro nel lavoro di Han ma che non ha lo stesso successo in termini di lettori e lettrici mainstream.

Walter Benjamin è un filosofo e antropologo appartenente al ‘900.

Oggi è studiato nelle università ma forse più ignorato da pensatori e pensatrici da talk show in prima serata (quelli, per intenderci, che si danno un tono parlando di narrative putiniane o trumpiane o -peggio del peggio- meloniane).

Ripartire dal suo lavoro forse più prezioso per chi vuole condurre un’analisi sul discorso, ossia “Il narratore Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov“, saggio del 1936 (personalmente ne consiglio l’acquisto dell’edizione 2010 con le note di Baricco a margine).

Il tempo di Benjamin. E quello di Han

Potremo partire dalle prime righe del suo quinto capitolo per definire un primo, importante pilastro.

Il primo segno di un processo al cui termine si colloca il declino della narrazione è la nascita del romanzo alle soglie della modernità.

Ciò che separa il romanzo dalla narrazione (e in senso più stretto all’epica) è il suo legame sostanziale con il libro. La diffusione del romanzo diventa possibile solo con l’invenzione della stampa.

Ciò che si lascia tramandare oralmente, il patrimonio dell’epica, è di altra natura rispetto a quanto costituisce il fondo del romanzo.

Il romanzo si distingue da tute le altre forme di letteratura in prosa -fiaba, leggenda, e anche dalla novella- per il fatto che non esce da una tradizione orale e non torna a confluire in essa.

Ma soprattutto del narrare.

Il narratore prende ciò che narra dell’esperienza -dalla propria o da quella che gli è stata riferita- e la trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia.

Il romanziere si è tirato in disparte.


Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino, è egli stesso stesso senza consiglio e non può darne agli altri.”

Questo frammento isola perfettamente un aspetto fondamentale dell’articolato benjaminano: la purezza della narrazione risiede nella sua gestualità, che è frutto di un esercizio corale, collettivo, sociale e condiviso.

L’oralità diventa veicolo che conforma tutto ciò che segue dopo: assume poi forme diverse (la fiaba scritta ad esempio) ma riverbera nell’eternità grazie alla sua genesi “a voce”.

Entra in scena la Digitalizzazione

Han risponde a questo approccio monolitico al pensatore tedesco, offrendo una chiave indiscutibile:

La digitalizzazione mette in moto un processo che Benjamin, condizionato dal suo tempo, non avrebbe potuto assolutamente prevedere.

Egli mette in connessione l’informazione con la stampa. Essa sarebbe una forma di comunicazione alla prassi narrativa del romanzo. Nel processo di digitalizzazione l’informazione perviene a uno stadio completamente differente. La realtà stessa prende la forma dell’informazione e dei dati. […]

L’informazione è una rappresentazione, cioè una ri-rappresentazione. L’informatizzazione della realtà ha come conseguenza che l’immediata esperienza del presente viene distorta. Attraverso la digitalizzazione in quanto informatizzazione la realtà viene appiattita.

Cento anni dopo Benjamin l’informazione è progredita in una nuova forma di esistenza, cioè in una nuova forma di dominio.

Questo dominio, subdolo e non violento ma pervasivo, si evince nell’incapacità dell’individuo di raccontare (“Niente viene più tramandato, niente viene più raccontato“) a causa di un deterioramento dell’esperienza, di cui si trova traccia già nel “secolo breve”, è che oggi è riscontrabile in maniera prepotente in quella che Han definisce “Atrofia del tempo”, ossia ciò che si genera dal crollo del tempo.

Da dove è nato il (nostro) conflitto

Torniamo quindi al pezzo di Silvia. Perché non può essere corretto parlare di “narrazione moderna” che “sfocia nella narrativa che non è un genere ma mutazione, pagine che cambiano forma”?

Perché è sbagliato, a nostro avviso, il presupposto con cui analizziamo la mutazione.

Han scrive: “Il phono sapiens si immola al servizio del momento, delle realtà momentanee quali le esperienze vissute che si succedono e dispaiono” portando ad esempio in confronto fra la fotografia ante-digital e i selfie (confronto che probabilmente avrebbe entusiasmato Adorno e la Sontag).

L’addizionalità che contraddistingue le piattaforme social (che sono il “grado zero della prassi narrativa“, che basa la sua esistenza sulla “selezione e sul collegamento di eventi” in maniera selettiva) sono un’estensione concettuale dell’individualità alla base del romanzo indicato da Benjamin.

Se nel ‘900 il romanziere -pur attivando meccanismi che oggi consideriamo a tutti gli effetti narrativi- si isola tralasciando la purezza gestuale del narrare, nel nuovo millennio questa ricerca individuale viene sistematizzata, algoritmizzata, resa granulare e senza un vero collegamento.

Insomma, viene estremizzata.

Oggi ogni individuo potrebbe corrispondere, secondo la lettura di Benjamin, alla figura del romanziere: perché ne replica la pulsione individuale che in quel momento tendeva a ridiscutere la prassi narrativa vigente.

Sono in fondo solo cambiati i “format”: ieri lunghi romanzi di genere, oggi per lo più stringati post su pagine di pixel.

La differenza sta nella vocazione, nella pulsione: da una parte c’è la volontà del racconto, dall’altra la necessità della condivisione.

Ecco perché l’evoluzione di narrazione in narrativa appare come una forzatura.

Perché sì, la narrativa è frutto di un percorso che l’essere umano ha fatto per “educare” il suo istinto di narrare alla riflessività. Ma non potrà mai accogliere quella natura di trasmissione che solo l’oralità e la collegialità possono sostenere.

Non lo faceva ieri, non può fare a maggior ragione oggi.

Esercizi

Val la pena di entrare nel dettaglio, molto brevemente e un po’ a volo pindarico, e guardare agli esercizi di “narrativa” tradotti nella modernità digitale.

Ho scelto di pescare da TikTok, dove i creator “di genere” si stanno moltiplicando, interpretando alcuni topos narrativi e giocando su aspetti dell’esperienza umana che si fanno allegoria.

La piattaforma offre soluzioni piuttosto divertenti per confezionare proposte di contenuto anche gradevoli.

Un esempio interessante è Coupleofhorrorz, 1 milione e seicentomila fans e tanti, tantissimi video dedicati ai più ricorrenti plot narrativi di matrice orrorifica.

Rapimenti, spiriti e case infestate, serial killer, zombie.

Il tutto mescolato a una dimensione domestica preponderante, anche a livello spaziale, che soffoca e sottintende -almeno, crediamo- a un chiaro riferimento alla tipica famiglia americana, anche questo tema ricorsivo nella narrativa di genere.

Gli esercizi narrativi di Coupleofhorrorz sono spesso costruiti in maniera collegiale, ripescando trattamenti molto noti e reinterpretandoli oppure chiedendo alla community di “raccontare una storia” per metterla in scena.

In pratica, una specie di filiera cinematografica in piccolo.

A questo esempio se ne può affiancare un altro, spangerlookrey.

Qui l’esercizio da narrativo diventa più stilistico. C’è più fedeltà alle logiche frammentate del social network nei contenuti di questo creator, che tende a sviluppare micronarrazioni al solo gusto di stupire e spaventare.

Qui il genere si ritrova in purezza, e il pubblico sembra anche apprezzare (ben 3 i milioni di utenti che seguono questo account). Si tratta però di esempi di racconto molto afferenti al concetto di narrativa almeno secondo l’impiego italiano, dove la natura “collegiale” del racconto si perde a favore di una più “digitale” prestazione creativa.

Non c’è un giudizio di merito fra i due canali: uno sembra essere più un progetto narrativo tout court con anche un carattere di ricerca, mentre l’altro è coerente con la grammatica dei social, alla perenne ricerca di un effetto wow.

Entrambi di valore, spiegano bene però come la narrativa sia declinata ancor oggi in maniera chiara e indiscutibile, e si ponga in maniera completamente diversa rispetto alle “narrazioni”, grandi o piccole che siano.

Le grandi narrazioni come risposta?

Facciamo una provocazione.

Se la dicotomia collettività/individualità è la discriminante per circoscrivere il perimetro di un significato, come entra il fattore Tempo?

Dove impatta questo aspetto nel deterioramento dell’esperienza?

Ne “L’elogio della lentezza” Lamberto Maffei cita Zygmunt Bauman, cui dobbiamo alcune delle riflessioni più importanti della modernità.

L’influenza della società dei consumi sulla percezione del tempo è stata presa in considerazione anche da Bauman, il quale sostiene che il tempo non è percepito come continuo, ma come una serie di punti, ognuno dei quali ha una sua storia limitata con nascita e fine e che hanno uno scarso coefficiente di correlazione tra loro, quasi eventi indipendenti generati dal caso, come se i circuiti della memoria non riversassero più il loro contenuto nella pentola dell’informazione celebrale“.

Ritrovate qualcosa di già detto?

Già: quella frammentazione che ritroviamo nel criterio di addizionalità dei social citato da Han.

Aggiungiamo contenuti su contenuti, illudendoci che siano parte di un unico racconto -il nostro- quando sono elementi che si slegano.

Frammenti narrativi che non rendono possibili costruire un mosaico, quanto più una serie di pezzi che perdono senso mano a mano che il tempo si allunga.

Il Tempo però, come elemento, presenta un proprio conto: adagiarsi nelle sue regole significa anche accettare che possa esser percepito come infinito o istantaneo a seconda dell’esperienza che viviamo.

Il fatto che le grandi narrazioni collettive rimangano nel tempo, estendendo la propria influenza con una certa calma ed evidenziandone gli effetti, aumenta la forbice delle differenze.

Il racconto collettivo di Ultima Generazione è oggi tangibile, ad esempio. I suoi effetti, visibili. Al centro, c’è l’esperienza che nasce, si vive e si condivide.

La correlazione di ogni esperienza è proprio il filo conduttore che salva la narrazione.

Anche individuale, certo, anche se stiamo intuendo come l’individualità stia in realtà allontanandosi da quella capacità.

Le cause sono molteplici, non ultima il fatto che si stia disimparando a scrivere.

Pur rimanendo un gesto individuale, permette di interiorizzare meccanismo di trasferimento dell’esperienza e anche di dominio sul gesto del raccontare.

Tema per un altro long-form, probabilmente.

I nuovi mostri

A preservare il legame fra narrazione e tempo è appunto la collegialità, ciò che rende collettivo un racconto.

Non siamo più la società dove l’oralità permette di costruire senso (e qui Han sottolinea benissimo il ruolo distruttivo della società dell’informazione).

Siamo il mondo dove il senso si costruisce attraverso narrazioni che diventano collettive, per di più dal basso.

La società dell’informazione ha generato mostri incontrollabili che si alimentano di oralità: il complottismo, ad esempio.

Racconti tramandati “di bocca in bocca” (certo: diffusi da medium, ma mutuando le meccaniche del tramandarsi esperienze) con un rapporto di connessione straordinario.

A ogni passaggio di persona in persona questi acquisiscono particolari, si ingigantiscono, fino ad assumere senso in virtù di correlazioni spesso inesistenti.

Narrazioni che nascono come risposta a esperienze autentiche come la propria quotidianità, e crescono alimentandosi con frammenti sconnessi. La capacità dell’uomo di costruire senso attraverso le storie fa il resto.

Si potrebbe dire, provocatoriamente, che queste narrazioni mutuino elementi delle “narrative” (per i meccanismi di genere, per i plot, per l’impiego delle figure retoriche, per l’impiego inconsapevole delle funzioni di Propp).

Comunque, non sono assolutamente la stessa cosa.

Semmai, rimarcano la differenza sostanziale fra le due cose.

Per concludere

Lascio una traccia agli amici e alle amiche di Exlibris20, se vorranno seguirla.

Quali sono i libri di narrativa che hanno saputo avviare una narrazione collettiva i cui effetti siano diventati tangibili?

Quali hanno costruito un immaginario che è uscito dalla pagina scritta e orientato l’esperienza dell’individuo (da solo e insieme ai propri simili)?

A me viene in mente Chiedi alla polvere di John Fante e Sulla strada di Jack Kerouac, ma chissà quanti ce ne sono.

Lascio a voi cercarne e magari raccontarci qualcosa di più.


Dialoghi è il viaggio condiviso con Exlibris20 per indagare il presente e il futuro della narrazione.

Insieme alle contributor e ai contributor del magazine fondato da Lea Iandiorio pubblichiamo un articolo che sviluppa un rimbalzo ideale di stimoli, riflessioni, proiezioni e teorie sul come il raccontare stia mutando sotto i nostri occhi.

Prima puntata: La forza e la crisi della narrazione

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Francesco Gavatorta
Francesco Gavatortahttps://francescogavatorta.com/
Leggo, scrivo, gioco a Football Manager, guardo il calcio e la boxe e ogni tanto li pratico entrambi. Mi piacciono le storie. Ho fondato Humanist.