Famiglia, scuola, digitale: il villaggio possibile

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Santi Cosma e Damiano è un piccolo centro della provincia di Latina. 

Il nome trae origine da due santi, due fratelli, medici di origine orientale, vissuti nei primi secoli del cristianesimo.
Cosma e Damiano curavano chiunque, senza chiedere nulla in cambio e senza guardare alla fede di chi avevano davanti. Erano chiamati “anàrgiri”, “senza argento”, perché esercitavano quella che ai tempi era medicina, gratuitamente.

Richiamano una cura che va oltre le barriere, prendersi carico degli altri che diventa empatia.

Quattordici anni

In questo paese, la comunità ha da poco vissuto una tragedia: il suicidio di Paolo Mendico, quattordici anni.
La sua morte ha lasciato sgomenta una comunità intera, la famiglia parla di anni di prese in giro e di bullismo sistematico, “vessazioni fin dalle elementari” fatte di offese, di piccoli gesti quotidiani che lo isolavano. Il fratello, pochi giorni dopo il suicido, ha mostrato “decine di chat” come prova di un accanimento continuo, verbale e digitale.

La Procura di Cassino ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio.

Le cronache raccontano molto e di ciò che è stato scritto e detto, la sensazione che rimane addosso è soprattutto quella della solitudine. Una solitudine che sembra nascere dall’assenza di empatia da parte degli insegnanti e l’incredibile notizia della presenza di un solo compagno ai funerali.

Come redazione di Humanist questo fatto di cronaca ci ha colpito profondamente. Abbiamo sentito l’urgenza di scriverne, a nostro modo: ci siamo interrogati su quanto abbiamo letto e da queste domande nasce un articolo a tre firme. Il nostro intento, come sempre, non è stimolare, fare domande per sensibilizzare e arricchire il dibattito.

La radice

di Massimo Benedetti

L’empatia è una competenza molto complessa.
Un processo che unisce mente, cuore e comportamento. Un definizione da manuale dice che significa capire l’altro (dimensione cognitiva), sentire con lui/lei (dimensione affettiva) e agire di conseguenza (dimensione comportamentale).

Mi piace pensare che sia quella linfa che nutre le altre competenze relazionali: senza empatia, l’ascolto diventa semplice registrazione di suoni, la presenza diventa fisicità vuota, la gestione del conflitto potrebbe ridursi a strategia.

In altre parole, l’empatia è ciò che dà vita al resto. È basilare, perché senza di lei le relazioni si svuotano e si spezzano.

Siamo tutti dotati di empatia, sta alla radice del nostro modo di stare con gli altri. La mancanza stabile e radicale di empatia può essere segnale di alcuni disturbi clinici, ma nella maggior parte dei casi si tratta invece di una competenza non coltivata o compressa da contesti sfavorevoli.

Ci vuole un villaggio

Difficile ricordare quando stavamo attorno al fuoco, ma ci siamo stati per molto tempo, ci sono testimonianze e studi.
Raccontarsi, guardarsi negli occhi, condividere la paura e la speranza. Il fuoco era il luogo dove come comunità imparavamo a riconoscere noi stessi e a riconoscere l’altro.
Inutile soffermarci sul fatto che oggi il fuoco è cambiato, o meglio, i fuochi sono cambiati e si sono ampliati: spazi digitali, chat e gruppi online amplificano la voce ma potrebbero ridurre l’ascolto.
Nel caso di Paolo, proprio quelle chat sono diventate luoghi di esclusione, di violenza e di isolamento. Un paradosso: strumenti nati per connettere vengono usati per allontanare.

Ma su questo tema proveremo a indagare più avanti, al momento sappiamo che quel fuoco attorno al quale le persone di un villaggio si riunivano, è cambiato.
Che cosa abbiamo guadagnato?
Che cosa abbiamo perso? 

“Per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”, dice un famoso proverbio africano. La parola educare ha pieno senso nel linguaggio scolastico, famigliare ma anche sociale. Prende un significato profondo: tirare fuori il meglio da una persona.
Proprio per questo motivo il villaggio oggi è composto da famiglia, scuola, amici, comunità digitale e istituzioni.
L’empatia dovrebbe diventare educazione continua, capacità diffusa e esercizio collettivo.

Nonostante esistano, oggi, molte tipologie di villaggio, anche legate tra loro, se queste si limitano a esistere senza empatia, il risultato potrebbe portare comunque alla solitudine.
Se l’empatia diventa pratica condivisa, allora il villaggio può cambiare ma restare sinonimo di protezione, accompagnamento e crescita.

L’empatia come allenamento

A mio avviso l’empatia va allenata continuamente, nel cambiamento: della società e personale, nel proprio ruolo, quando si trasforma.
Ogni strumento, dalla parola a un gesto di cura, fino a un messaggio digitale, veicola empatia, se usato consapevolmente.

Credo che l’allenamento più efficace sia quello della consapevolezza: tornare a farci domande potenti e imparare a restare un po’ di più dentro i problemi, senza cedere alla fretta che spinge a liquidarli.

Viviamo in una cultura che premia la performance continua, dove l’ascolto rischia di ridursi a un gesto tecnico per produrre rapidamente una risposta. Succede troppo spesso di entrare in relazione come se si aprisse un ticket: l’altro espone un bisogno, noi consegniamo una soluzione pronta.

Così, credo si perda la parte più preziosa del rapporto: il tempo della presenza condivisa.

Non dico che non si debbano trovare soluzioni, ma la prima consapevolezza è che potrebbero non essere così immediate come, spesso, la comunicazione digitale ci porta a fare. Potremmo anche solo stare accanto a qualcuno senza la pretesa di risolvere subito tutto.

Diventa già parte della soluzione: significa accettare la complessità, riconoscere la fatica, legittimare la sofferenza. In questo tempo, fatto di domande e silenzi più che di risposte, prende forma una cura autentica, che si costruisce insieme.

Consapevolezza

La consapevolezza rende l’empatia attiva e profonda, aprendo lo spazio alla ricerca comune di strade possibili (come ad esempio la necessità di professionisti e percorsi di cura veri e propri).

Essere consapevolmente presenti nelle relazioni è già una risposta, perché trasmette a chiunque incontriamo che non è solo, e che vale la pena continuare a cercare. 

Il caso di Paolo ci dice anche che non possiamo delegare l’empatia all’occasione. Non possiamo ridurla a sensibilità individuale. Deve diventare tessuto comune. Ogni volta che una comunità si allena a esercitarla, le persone che ne fanno parte restano sempre visibili.

Io credo che le basi di questa pratica vanno allenate nei luoghi dove si cresce: la famiglia come primo contesto e la scuola come luogo principe dell’educazione, dove ogni giorno l’empatia può diventare palestra di presenza e ricerca condivisa.


Il suicidio come fatto social(e)

di Alberto Smaldone

A proposito di empatia, Il ministro Valditara, in una trasmissione televisiva descrive in maniera folkloristica il fenomeno della violenza connessa alle tecnologie digitali:

“bisogna fermare l’abuso di social

Una frase utilizzata come ancoraggio propagandistico non è in grado di restituire una dimensione complessiva, critica e identitaria che è alla base del tema della tecnologica come amplificatore delle esperienze rimosse

Il tema portante è comprendere che le istituzioni non possono relegare fenomeni di violenze a sistemi tecnologici seguendo dei principi di neutralità, deresponsabilizzando la propria funzione. Al contrario, dovrebbero cercare di fare uno sforzo intellettuale e assumere una postura intelligibile in grado di collegare i piani e capire che un mondo “connesso” non riguarda solo i prosciutti, i vini e i cotechini ma anche le relazioni, i messaggi, le bugie e, come in questo caso, gli insulti, le relazioni e la violenza.

Durkheim, nel suo classico studio Il suicidio (1897), sosteneva che l’atto estremo di togliersi la vita è un gesto individuale solo nella fase finale della tragicità del singolo individuo. Trovare il coraggio dell’ultimo atto è parte di un percorso in grado di riflettere le condizioni collettive che attraversano la società in un momento storico, ovvero il suicidio è un fatto sociale.

La categoria di anomia descrive proprio quelle situazioni in cui le regole comuni si dissolvono, lasciando l’individuo senza orientamento. In un mondo senza punti di riferimento stabili, la persona attraversa una fase di paranoia, incapace di collocarsi ontologicamente, di attribuire un significato ai segni che lo circondano. Il suicidio anomico emerge quando la società non offre più strumenti per integrare l’individuo e contenere il suo malessere.

Durkheim presentò tale studio all’alba della nascita della Modernità, la società industriale proponeva la metropolizzazione della vita quotidiana scandita sul tempo lineare e produttivo. L’emergere di uno spazio di condivisione della soggettività creò un senso di disfunzione individuale come forma propedeutica di smarrimento verso un mondo basato sul tempo circolare che smetteva di essere il fulcro esperienziale dei gruppi sociali.

Il passaggio da comunità a Società genera una fase di transizione anomistica dove le regole fondative non erano più in grado d’interpretare il mondo “nuovo” generando la rottura delle norme di convivenza manifestandosi poi con il suicidio del singolo.

Applicare questo schema al nostro tempo significa riconoscere che la società “digitale”, lungi dall’essere uno spazio ordinato, è un territorio in cui regole e ruoli sono spesso ambigui, fluidi, contraddittori. I social network non stabiliscono codici etici condivisi, ma si nutrono di viralità, di interazioni continue, di visibilità e performance. L’adolescente che vi entra si trova immerso in un ambiente che moltiplica i rischi di esclusione, di ridicolizzazione, di smarrimento. Ciò accade perché il digitale non è concepito dalle agenzie di socializzazione come parte integrante della società in cui organizziamo il vissuto come essere umani, ma è interpretato come svago, intrattenimento, distrazione. Il digitale non è altro rispetto a noi, è una parte costitutiva del nostro vissuto quotidiano; lo smartphone, ridotto a “telefonino”, è strumento ermeneutico di significazione del mondo che trova nel contesto tecnologico uno spazio di azione comunicativa.

Il digitale è uno spazio sociale

Troppo spesso si sente dire che i social sono solo strumenti, neutri, che “dipende dall’uso che se ne fa”, dal mio punto di vista questa affermazione è errata. I media digitali sono spazi di socializzazione, veri e propri ambienti in cui i giovani e adulti trascorrono gran parte della loro vita relazionale. Essi sperimentano la dimensione sociale attraverso gli ambienti digitali con forme diversificate d’interazione costruendo reputazioni e cercando conferme. Il digitale è dunque un ambiente sociale che condiziona profondamente comportamenti e percezioni.

Nel caso di Paolo Mendico, le chat di gruppo erano divenute luoghi di offesa e di esclusione. In questo caso, la chat è uno strumento di messaggistica istantanea, sono le persone a conformare gli spazi digitali in merito a obiettivi condivisi. Ad esempio, la chat di Humanist è uno spazio redazionale, di confronto di idee.

Tornando al caso di Mendico, la chat diventa una proiezione digitale del lungo corridoio scolastico dove l’insulto si registra, si replica, si trasforma in video, diventa virale tra i corridoi di altri istituti diffondendo una pratica di violenza enunciativa.

Gli atti digitali non spariscono con la fine della giornata: restano scritti, sono condivisibili, rimangono impressi in quella chat che diventa un patibolo, una gogna pubblica dove il corpo scelto da sacrificare è esposto per il proprio gruppo.

La persistenza dei contenuti rende l’umiliazione più pesante, un macigno che scaraventa il singolo nell’angolo più buio della propria stanza.

La dimensione pubblica e privata si intrecciano: la presa in giro in chat può raggiungere decine di compagni, costruendo una reputazione sociale stigmatizzata che accompagna il soggetto anche fuori dallo spazio fisico della scuola, coinvolgendo anche i familiari.

Analfabetismo Digitale

Siamo consapevoli di tale forma di anomia digitale?

Le agenzie di socializzazione classiche (scuola, famiglia, chiesa, partito) sono esplose. Esse non sono più in grado di costituirsi come luogo d’intermediazione identitaria per il singolo che sia adolescente o adulto, per cui una persona deve necessariamente ancorarsi a qualcosa per cercare di costruire la propria identità. 

Il digitale diventa un rifugio che non si limita alla conversazione ma esercita una manifestazione del rimosso di una società che non è in grado di sopravvivere e svolgere la propria funzione in virtù della crisi del sistema capitalistico.

Le famiglie in Italia esplorano la povertà in tutte le suo forme(economica, culturale e formativa), il ceto medio è in collasso, i gruppi familiari sono disfunzionali: un sistema povero e in crisi costruisce un ambiente dove la povertà educativa diventa il fertilizzante di un terreno che trova nella violenza il mezzo di espressione della propria condizione. Le storie dei giovani in Italia sono raccontante attraverso la lente della violenza: stupri, gang, omicidi, pedofilia e suicidi come il caso Mendico.

L’adolescente non trova più regole chiare né sostegno comunitario: la famiglia è inconsapevole, la scuola fatica a intercettare i segnali, la politica delega allo “spettacolo” la soluzione.

Nel frattempo, il digitale è uno spazio vivo: impone ritmi, regole implicite, gerarchizza lo spazio comunicativo creando le condizioni per una sovrastruttura dove si può essere continuamente esposti al giudizio altrui, senza strumenti adeguati a elaborarlo. Un luogo legato in maniera simbiotica alla realtà materiale; la tecnologia è determinata dalla cultura che costruiamo in questa società.

I social media vivono di violenza verbale, di polarizzazione e di scontro, esistono pagine generate solo per stimolare cattiveria e odio. Esponenti politici hanno costruito la propria reputazione comunicativa attraverso la violenza del linguaggio, ricorderete l’algoritmo “la Bestia” di un noto Ministro?

Una società violenta trova nel digitale un mezzo per potenziare i messaggi di “violenza” in un palcoscenico dove ci si sente osservati ma non ascoltati, siamo visibili per tutti ma nessuno è in grado di riconoscere i segni di uno smarrimento identitario.

Nel caso Mendico siamo tutti colpevoli perché stiamo costruendo un mondo fondato sulla violenza in tutte le sue forme (verbale, istituzionale, economica, di “genere”) senza esercitare azioni in grado di mitigare e contenere il fenomeno.


Settembre, tutti a scuola

di Martina Decaroli

Settembre è uno dei rari momenti dell’anno in cui la scuola torna al centro del dibattito pubblico; sull’opportunità di lasciare alla scuola uno spazio così risicato si potrebbe parlare a lungo (e non è detto che non lo faremo), ma ciò di cui è più urgente parlare ora è del modo in cui si è parlato di scuola in queste settimane, perché, purtroppo, la tragedia ha dominato lo spazio della scuola.  

Paolo Mendico si è tolto la vita a 14 anni perché la scuola per lui era diventata un inferno. Nessuno, nella sua realtà scolastica, si è reso/a conto della gravità della situazione, anzi quasi tutti hanno contribuito a renderla tale. Da docente, non posso evitare di dirmi che è necessaria una riflessione sulla salute della nostra Scuola e dei nostri ragazzi.

La scuola che vorrei

Da piccoli ci insegnano che la scuola è importante. È importante perché è il luogo in cui impariamo a ragionare, impariamo la bellezza, impariamo a pensare criticamente. Ma è importante anche perché è la prima forma di società con cui entriamo in interazione al di fuori della nostra famiglia. E proprio come la famiglia, la scuola dovrebbe essere un luogo protetto in cui fare esperienze sia positive sia negative in completa sicurezza.

A scuola le allieve e gli allievi devono sapere che possono sbagliare perché saranno corretti dai docenti e aiutati nell’apprendimento.

A scuola, almeno nel sistema italiano, gli alunni sono inquadrati in classi che lavorano il più possibile con i medesimi docenti perché si crede nella validità di un sistema basato sulla continuità e sulla sicurezza educativa che essa garantisce nella maggior parte dei casi.

Gli schiacciatori non parlano dell’alzata. La risolvono

La scuola dovrebbe essere tutto questo e molto altro ma, purtroppo, non sempre la pratica rispecchia la teoria e spesso ciò avviene in modo dirompente. Per Paolo Mendico la scuola non è stata tutto questo. Nei giorni successivi alla tragedia si è scatenata la gogna mediatica ma, forse, occorre fare un po’ di spazio in noi stessi e iniziare con un esame di coscienza.

Come è intrinseco nell’attitudine umana, spesso noi docenti cerchiamo alibi per giustificare un percorso educativo in singole classi o più in generale non lineare; e così la scuola incolpa la famiglia che incolpa la scuola e tutti insieme incolpiamo la società.

Dovremmo tutti incarnare nella nostra vita le parole di Julio Velasco, CT della nazionale femminile di pallavolo: “Gli schiacciatori non parlano dell’alzata. La risolvono”.

Ma noi docenti, come risolviamo le alzate, spesso sghembe, che ci arrivano dalla scuola? E se penso a questa azione in particolare, quella contro il bullismo e il cyberbullismo, mi chiedo: cosa possiamo fare in qualità di docenti?

Relazione = rimettere al centro

Sarà una risposta banale, ma penso che la cosa più importante sia esserci. L’insegnamento è un lavoro di relazione e come tale deve mettere al centro la relazione. Relazione è una parola che deriva dal verbo latino refero, ossia “riporto indietro”; nella forma del participio perfetto, relatus, letteralmente significa “riportato indietro”. Una relazione, dunque, qualcosa che viene riportato, ma anche qualcuno che viene riportato, portato indietro, rimesso al centro. Come docenti, sappiamo rimettere al centro i nostri alunni?

Certo, la situazione non è delle migliori. La burocrazia soffoca il lavoro, i programmi sono sempre più vasti, i ragazzi sono spesso disconnessi emotivamente, le ore in classe sono poche e spesso caotiche. Ma in quelle ore è necessario rimettere al centro i ragazzi e le ragazze, far sentire loro che insieme possiamo costruire uno spazio sicuro, uno spazio in cui tutti possano essere a proprio agio con sé stessi e con gli altri e, soprattutto, con l’Altro con la A maiuscola. Parlare, ascoltare, sorridere. Pochi verbi che possono ridefinire in toto i rapporti tra docenti e studenti, senza nulla togliere alla serietà del momento educativo e di apprendimento.

Adulti e adolescenti: un dialogo (im)possibile?

Poiché svolgiamo un lavoro che richiede a degli adulti di avere a che fare con dei ragazzi, degli adolescenti, dei non adulti, spesso commettiamo l’errore di pensare di non appartenere al loro mondo e che, in fondo, sia giusto così; ciò in parte è vero, dal momento che tra studente e discente deve esistere una naturale barriera costruita sul rispetto e sulla percezione dell’alterità. Ma allo stesso tempo non possiamo pensare di non entrare mai in interazione con i ragazzi e con le loro dinamiche, di singoli o di gruppo: intercettare il malessere e attenzionarlo deve essere un momento chiave dell’insegnamento.

Alcuni dati

Per fare ciò, bisogna conoscere la situazione di base che, di per sé, non è molto rincuorante. Secondo uno degli ultimi rapporti Istat sul tema, infatti, L’indagine “Bambini e ragazzi: comportamenti, atteggiamenti e progetti futuri”, condotta nel 2023, che ha coinvolto un campione di 39.214 individui, Il 68,5% dei ragazzi 11-19enni dichiara di aver subìto, nei 12 mesi precedenti, un qualche episodio offensivo, aggressivo, diffamatorio o di esclusione sia online che offline. Ad avere subìto questi atti più volte al mese è il 21% dei ragazzi; inoltre, per circa l’8% la frequenza è stata quanto meno settimanale. I maschi dichiarano di aver subìto atti di bullismo più delle femmine (21,5% contro 20,5%). La cadenza più che mensile degli eventi vessatori subìti si riscontra soprattutto tra i giovanissimi (ne è stato vittima il 23,7% degli 11-13enni) piuttosto che tra i 14-19enni (19,8%). L’indagine completa è consultabile cliccando qui

Quasi due ragazzi su 3 dichiarano di aver subito atteggiamenti vessatori. È un numero spaventosamente alto che non può essere guardato con sufficienza con il classico atteggiamento alla “ma sono ragazzi”. C’è un solo modo, credo, per provare a migliorare la situazione: sviluppare l’empatia. Insegnare che, nel profondo, siamo tutti uguali e che l’altro, in quanto essere umano, vale esattamente quanto me. Fare tesoro delle parole del commediografo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Sono un essere umano, non ritengo estraneo a me nulla che sia umano.

Parole Ostili

Uno dei progetti più interessanti che prova a agire per un impatto positivo nelle scuole e nel mondo digitale è quello di Parole Ostili, “un progetto sociale di sensibilizzazione sull’utilizzo delle parole”. Parole Ostili ha sviluppato un manifesto che riassume i punti chiave della comunicazione non ostile, per lavorare con i ragazzi, ma anche con gli adulti, sul fatto che è proprio dalla parola che, spesso, nasce la violenza.

Prendersi cura del modo in cui parliamo, al di là di qualche elegante e forbito latinismo, significa prendersi cura dei destinatari delle nostre parole. Parlare bene, in modo corretto e rispettoso, è, dunque, uno dei più rivoluzionari gesti di non violenza e di empatia. In fin dei conti, l’essere umano è l’unico essere vivente ad aver sviluppato il linguaggio: cosa può esserci di più umano che il parlare corretto?

Homo sum, humani nihil a me alienum puto

Forse, se le persone attorno a Paolo non lo avessero considerato un estraneo, un oggetto con cui intrattenersi nelle pause della propria vita, oggi sarebbe ancora vivo. Forse, se le persone avessero curato maggiormente il proprio modo di parlare, oggi sarebbe ancora vivo. Forse, se i suoi docenti avessero curato la relazione con lui, oggi sarebbe ancora vivo.

Con i forse non si riscrive la storia.
Ma con la cura delle relazioni possiamo salvare i tanti Paolo che ancora abitano le nostre scuole.

foto copertina: Massimiliano Balzarelli

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Staff Humanist
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