Gli occhi, la bici e l’Alaska

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Lei arriva in bicicletta ovviamente, con il lungo vestito colorato che svolazza. È luglio e l’acciottolato di piazza Teodolinda butta fuori tutto il calore della giornata mentre ci presentiamo, forse con un po’ di imbarazzo da tutte e due le parti. “Penso sempre che quello che ho da dire non sia poi così importante, spero davvero che interessi qualcuno”, dice lei.

Io non ho nessun dubbio. Ci accordiamo per rivederci appena passa il gran caldo, per fare una chiacchierata con calma, pedalando ovviamente. Lei fa un nodo nel vestito. “Scusa ma oggi sono un po’ di fretta. Devo proprio andare”. Salta sulla bici e vola via sfiorando appena i sassi sconnessi. Io resto ancora un momento seduto sul muretto tiepido e inizio a domandarmi se sia stata una buona idea accettare di fare un’intervista in bici con lei: ce la farò a starle dietro? E se poi mi manca il fiato? Alle mie spalle la grande basilica di Santa Maria Maggiore se ne sta lì senza dire niente, come del resto ha fatto per gli ultimi mille anni. 

Ma voi lo sapete chi è la donna che ho appena incontrato? Una donna minuta e potente, leggera e decisa. Con un sorriso che si vede da lontano e gli occhi come l’Alaska.

Ausilia, com’è l’Alaska?

È un bel pomeriggio di metà settembre e sto pedalando accanto ad Ausilia Vistarini sulle strade tranquille della Lomellina.

“Pura” dice lei, e poi fa una pausa prima di riprendere “Sì, pura. L’impressione, arrivandoci, è che sia un posto a parte rispetto al resto degli Stati Uniti, forse l’ultima vera frontiera. Un posto ancora incontaminato”.

Ma non sembra un po’ aliena? Insomma, un ambiente così selvaggio, estremo, non la rende un luogo davvero fuori dal mondo?

“No, al contrario: la sensazione è proprio quella di essere nel mondo, in un mondo bellissimo: il mondo come dovrebbe essere”.

Ausilia l’Alaska la conosce, l’ha vista da vicino diverse volte. In bici. Avete presente la corsa all’oro del Klondike? Lo Yukon? Oppure la storia di Balto? Ecco, quei posti lì. In bici. In inverno.

“lo ho partecipato due volte alla corta e due alla lunga. La prima volta si è costretti dal regolamento a partecipare alla gara corta, poi si può scegliere il percorso lungo” spiega lei.

La gara di cui parla è l’Iditarod Trail Invitational, la più lunga ultramaratona invernale del mondo, che segue il percorso della ancora più famosa Iditarod Trail Sled Dog Race, corsa con le slitte trainate dai cani. Alla maratona invece si può partecipare a piedi, con gli sci o in bici.

“La corta è un traguardo intermedio, a un terzo del percorso, circa 600 km; mentre la lunga è di 1800 km, più o meno. Ad anni alterni la gara lunga percorre un tracciato a nord oppure uno più a sud, sempre partendo da Anchorage e seguendo in parte il fiume Yukon, fino a Kaltag; da li inizia il tratto finale, sempre lo stesso, sull’oceano, costeggiando lo stretto di Bering per arrivare a Nome”.

Le donne che hanno partecipato alla versione lunga dell’Iditarod in bici prima di Ausilia si contano sulle dita di una mano, e lei è stata la prima europea a completarla. Alla seconda partecipazione è stata la prima donna a tagliare il traguardo, con il tempo record di 17 giorni, 6 ore e 25 minuti; record che le sarà strappato qualche anno dopo dall’attuale detentrice, per sole tre ore. Per darvi un’idea, ecco. Alaska. In bici. In inverno. Più di cento chilometri al giorno di media.

Immagino che il regolamento sia pensato per evitare agli sprovveduti di lanciarsi in una sfida più grande di loro.

“Sì, in più per partecipare bisogna aver fatto delle gare qualificanti, secondo un calendario dettato dall’organizzazione. E poi comunque l’ultima decisione è loro, si accede solo su invito. Quando abbiamo partecipato noi, cioè io e Sebastiano, il mio compagno, la gara era ancora un evento di nicchia; ma sono passati dieci anni, adesso i numeri di chi vuole partecipare sono esplosi, come per tutte queste gare”.

Sono cambiate tante cose intorno all’Iditarod da allora?

“Dieci anni fa non sì trovavano fat-bike in Europa, per avere una camera d’aria giusta dovevi ordinarla negli Stati Uniti e farla arrivare. Siamo stati un po’ dei pionieri”. 

Non si attraversa l’Alaska senza la giusta attrezzatura.

“No, ma noi per fortuna abbiamo avuto l’appoggio di Darren Crisp, che è uno specialista del titanio e ha accettato la sfida di costruire due telai su misura per una sfida del genere. Ovviamente ci vuole una fat-bike, perché si  viaggia sulla neve, che secondo me è l’unico utilizzo sensato di una bici del genere. E poi materiale tecnico per resistere al freddo: abbigliamento e tutto il resto. Noi viaggiavamo senza tenda, quindi avevamo dei sacchi a pelo resistenti fino a -50°C”.

E non c’è supporto logistico lungo il percorso, giusto? I partecipanti si devono arrangiare per conto proprio fino all’arrivo? 

“Il viaggio non è supportato, ma prima della partenza si possono spedire dei pacchi con cibo e materiale nei villaggi che si incontreranno, perché ovviamente non si può portare tutto il necessario per magari venti o trenta giorni di percorso. Noi viaggiavamo leggeri, avevamo con noi solo il necessario per essere autonomi una settimana”.

Chi si incontra in un viaggio così?

“Come dicevo prima, l’Alaska è un luogo puro, non solo per la natura incontaminata, ma puro anche nelle relazioni tra le persone e tra persone e ambiente. Al di là di Anchorage, che è una città come tante altre, come le nostre, quelle che si incontrano nel percorso sono piccole comunità di qualche centinaio di abitanti al massimo, principalmente di etnia eschimese. Magari vivono di caccia e di pesca e la vita è dura, però viene vissuta dignitosamente. Le distanze sono enormi ma sembra che non contino nulla. Noi arrivavamo in questi villaggi a volte alle tre di notte, a trenta gradi sotto zero, e trovavamo qualcuno sveglio ad accoglierci con il the caldo: sapevano già del nostro arrivo anche se venivamo da un altro villaggio a due o trecento chilometri di distanza”.

E per di più non vi trattavano come foste dei pazzi.

“No, per niente. Facevano tutto con grande naturalezza, come se fosse nel normale ordine delle cose. Negli stessi giorni si corre la gara con le slitte, che è il loro grande evento nazionale, come fossero i mondiali di calcio per noi; tutti ne parlano e tutti la seguono. Anche la gara in bicicletta viene assorbita da questo entusiasmo generale e da questa generosità. Tutto senza clamore, come se fosse assolutamente normale, che ne so, uscire in motoslitta, incontrare un paio di ciclisti che viaggiano in pieno inverno e fermarsi per offrirgli una coca-cola. Questa sensazione di normalità in una terra così lontana e diversa mi ha affascinata”.

Avevi già vissuto esperienze simili?

“Io venivo dal caldo, ho fatto tre volte i Naturaid, che sono gare non-stop sui monti dell’Atlante, in Marocco; ho partecipato alla Bamako-Dakar, dal Mali al Senegal, e a un progetto chiamato Women Desert Ride, attraversando diverse zone desertiche del nord Africa e del medio oriente. L’Africa però mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Al di là della natura, che è stupenda anche li, i contrasti sono fortissimi: attraversavamo villaggi senza acqua, senza corrente elettrica, e magari sarebbero bastati pochi soldi per costruire un pozzo o portare l’elettricità nella scuola; e poi magari i potenti del posto venivano a vederci passare con il loro Porsche Cayenne”.

Ma quindi in queste esperienze, che poi in fin dei conti sono delle competizioni, c’è spazio anche per incontrare, per conoscere, per capire i luoghi che si attraversano? Non è che uno sfreccia via senza nemmeno guardarsi intorno?

“Io proprio no, per niente. Una volta siamo andati a fare la Mongolia Bike Challenge, sempre io e Sebastiano, era la prima edizione, a me piacciono le prime edizioni; è una gara a tappe e ricordo che sono partita a bomba nelle prime due, poi Seba mi ha fatto ragionare: ma insomma, siamo in un posto meraviglioso e tu davvero vuoi perderti l’occasione di fotografare questo panorama, questo tramonto, solo per stare davanti a qualcun altro in classifica? Ecco, lì ho imparato a dirmi: magari passo di qui una sola volta nella mia vita, questo posto me lo voglio godere più che posso”.

Ok, tu sei una che non si spaventa davanti alle grandi distanze e ama i lunghi viaggi avventurosi. Ma, come dicevi, tu arrivi dal caldo; come sei passata al freddo? E come mai proprio all’Iditarod?

“È stato proprio un vortice che mi ha presa. Nel mondo delle 24 ore ho conosciuto l’organizzatore dei Naturaid. Con lui e con i Naturaid ho iniziato ad avvicinarmi alle gare su lunghe distanze e da lui ho sentito parlare dell’Iditarod. Poi un amico, sempre conosciuto in un Naturaid, è stato ammesso all’Iditarod e così abbiamo iniziato ad allenarci insieme e ad accompagnarlo nella preparazione. A lui non è andata benissimo, si è ritirato dalla gara senza finirla, ma noi ormai eravamo nel vortice. L’anno dopo anche Seba è stato preso e quello successivo anch’io sono riuscita a partecipare. E’ stato un sogno contagioso, che ci ha presi e travolti”.

Prima parlavi dell’accoglienza che avete ricevuto. È vero che chi viaggia in bici fa meno fatica a mettersi in contatto con le persone che incontra e viene accolto più facilmente? Forse perché non spaventa ma invece incuriosisce? Insomma, se viaggi in bici ti guardano come un matto, ma non un matto pericoloso?

“Sì, l’impressione, viaggiando, è proprio quella: la bicicletta sdogana, avvicina. lo stessa sono la prima che quando mi vedo arrivare a casa uno in bicicletta che chiede ospitalità, lo accolgo più serenamente. Da dodici anni accolgo tramite WarmShowers”.

WarmShowers, per chi non lo sa, e da queste parti secondo Ausilia e anche secondo me non lo sa nessuno, è una piattaforma che mette in contatto i cicloviaggiatori con persone disposte ad ospitarli nei loro viaggi, gratuitamente, per soste brevi. Un posto per mettere al riparo la bici e dormire; una doccia calda, appunto; e qualcuno con cui chiacchierare. Spesso chi ospita conosce bene l’esperienza del viaggio in bici, spesso chi viaggia lo sceglie per tagliare le spese; entrambi ci guadagnano incontri da ricordare, sorrisi, racconti.

“È anche un modo per viaggiare quando non posso farlo di persona, tipo il protagonista di quel libro di Jack London, Il Vagabondo delle Stelle. Viaggio un po’ anche seguendo loro. Molti hanno un blog o comunque si resta in contatto con i social, o magari dopo tre mesi ti mandano una cartolina da qualche posto lontano”.

Com’è l’umanità che sfrutta questa possibilità di essere ospitata?

“La più varia che si possa immaginare, si incontrano personaggi curiosissimi, ragazzi che girano il mondo, viaggiatori che arrivano dalla Tasmania, ma anche gente molto normale. Sono sempre belle storie da scoprire. Spesso quando arrivano li porto alla Pro Loco per farli incontrare con la gente del paese. Due anni fa è arrivato un argentino, gli ho detto ok, puoi fermarti, ma in questi giorni c’è la nostra festa longobarda e non ho molto tempo per te… alla fine ha partecipato anche lui alla festa, gli ho spiegato alla svelta chi erano i Longobardi e cosa c’entrano con Lomello, gli abbiamo dato spada e scudo e gli abbiamo fatto fare il figurante. E siccome era un fotografo professionista, si è fermato tre giorni per fare l’editing delle foto e ci ha lasciato un book fotografico meraviglioso”.

Tu abiti da sempre a Lomello?

“Si”.

Viaggiare e accogliere ha cambiato il modo in cui vedi il tuo paese, il tuo territorio?

“Allora, devo dire che non amo particolarmente questo posto, soprattutto per pedalare. Però l’incontro con gli altri me lo fa vedere anche in maniera diversa. E poi è un po’ come quel luogo da cui vuoi scappare ma poi alla fine ci ritorni sempre, perchè è casa, è la tua dimensione. Insomma, lo vivo in modo un po’ conflittuale, non vedo l’ora di andarmene a respirare altrove, però poi quando torno mi scalda il cuore”.

Tu finora, dopo ogni viaggio, per quanto lungo, sei sempre tornata a casa. Cosa ne pensi di quelli che partono lasciando tutto per restare in viaggio per sempre?

“Mi piacerebbe fare come loro, ma non ho il coraggio di farlo. Non ho il coraggio di rompere i legami che ho, perché ci vuole coraggio a fregarsene, salutare tutti, lasciare lì cose e situazioni e partire”.

Ripenso al film che ho visto qualche mese fa, che racconta l’avventura di Ausilia sulle piste gelide del lontano nord. Mescola immagini di questo e di quel mondo, vento e freddo e bianco a perdita d’occhio, e insieme luoghi familiari, strade di paese, ricordi di chi la conosce bene: il viaggio e la casa, l’andare e lo stare.

Com’è provare a raccontare le tue imprese, i tuoi viaggi, le scoperte, le emozioni che ti hanno regalato? Si riesce davvero a comunicarle, a condividerle?

“Ho sempre paura che quello che racconto possa non interessare a nessuno perchè certe sensazioni devi essere bravo a trasmetterle, altrimenti si sbiadiscono; e magari io non riesco a farlo. Non so, la cosa che veramente mi interessa comunicare è la meraviglia… perché questo mondo, alla fine, è bello. E la bici, secondo me, è il mezzo giusto per goderselo, perché con la bici vai alla velocità giusta per incontrare il mondo”. 

Di cosa c’è da aver paura, viaggiando in bicicletta? Che cosa ti spaventa?

“Le auto. L’unico timore che ho, e mi è venuto in questi ultimi anni, è quello. In Italia c’è davvero poca attenzione, troppo poca. Per il resto, no, non ho nessuna paura in particolare. Pensa che ho iniziato a fare le 24 ore perché avevo paura del buio, mi sono detta che pedalare di notte era una buona terapia per vincerla. Adesso mi piace tantissimo”.

Ma qualche volta te la sei vista brutta?

“A volte l’inesperienza, in certe situazioni, ti mette nei guai. Una volta sull’Atlante, ero con un’altra ragazza a un Naturaid, abbiamo incontrato una perturbazione che in una notte ha scaricato acqua e grandine fino a cambiare la conformazione del terreno intorno a noi. Abbiamo visto delle luci, ma non ci siamo fidate a chiedere aiuto, così nella notte ci siamo trovate bagnate fradice e con le temperature che sono precipitate sottozero. In qualche modo siamo riuscite ad arrivare fino all’alba resistendo all’ipotermia. Ripartendo, dopo appena un paio di chilometri, abbiamo trovato una jeep dell’organizzazione che ci aspettava per farci attraversare un torrente di fango che si era formato per le forti piogge. Lì ho capito che non eravamo più in pericolo e sono rinata. Solo dopo abbiamo scoperto che un altro gruppo di partecipanti, la stessa notte, aveva chiesto aiuto ai berberi che avevamo visto anche noi in lontananza e così avevano passato la notte al caldo e al riparo, a poca distanza da noi“.

Essere una donna viaggiatrice fa qualche differenza?

“Sì, se viaggi da sola non è il massimo. Qualche timore c’è e io cerco sempre di avere qualche attenzione in più, soprattutto di notte. Poi però, sono fatalista: penso che potrebbe succedere anche dietro casa, quindi non parto mai prevenuta.”

Mi sa che la maggior parte delle persone considera anche la fatica come qualcosa di cui aver paura. Com’è il tuo rapporto con la fatica?

“Quando racconto dei miei viaggi tendo sempre a normalizzare l’aspetto della fatica. In fondo, se fai una cosa che ti piace, dov’è la fatica? Sì, certo, c’è la preparazione, l’allenamento; ma questa fatica fa parte del pacchetto per raggiungere al tuo sogno. Quanti atleti fanno preparazioni molto più lunghe e impegnative e magari poi non riescono nemmeno ad arrivare dove vorrebbero. Per i miei neuroni la bici non è mai fatica. Seba mi dice sempre che ho qualche contatto bruciato, non mi arrivano i segnali della stanchezza. Magari arrivo allo stremo delle forze, fisicamente distrutta, ma la testa c’è sempre, resta lucida. E poi, la fatica si dimentica in fretta, basta qualche ora di sonno e si riparte. A me la fatica fisica, sembra assurdo, da energia. Diciamo che non vado dall’analista, ma pedalo e mi ricarico. Se ho difficoltà nel quotidiano, mi metto alla prova con una sfida fisica, la supero e via, so che se ho fatto quello, posso superare anche i problemi di tutti i giorni”.

A proposito, ma tu che lavoro fai?

“Io ho fatto matematica all’università, poi ho lavorato per vent’anni da un commercialista, ma mi sembrava un lavoro inutile, senza gratificazioni a livello umano. Nel frattempo ho ripreso a studiare, questa volta scienze motorie. In quel periodo la bici era davvero una cura per lo stress. Ero intenzionata a cambiare lavoro ma ero anche legata al mio capo, che con me è sempre stato molto disponibile e non me la sentivo di mollarlo così. Quando lui è morto improvvisamente, era il periodo della pandemia di covid-19, mi sono decisa: adesso insegno nelle scuole medie. Prima scienze motorie, poi ho capito che non era la mia strada e ho preso l’abilitazione per fare l’insegnante di sostegno. Insomma, ho 54 anni, forse prima o poi capirò cosa voglio fare da grande”.

Anche questo è stato un bel viaggio, in un certo senso. Un’esplorazione alla ricerca di più relazioni, più umanità.

“Adesso non mi sembra nemmeno di lavorare. Ho un po’ meno tempo per la bici, ed è distribuito diversamente durante l’anno. Però sono più serena, arrivo a scuola carica di entusiasmo. Mi piace. L’anno scorso ho proposto di realizzare un progetto con attività di ciclofficina per i ragazzi, in verità pensavo che il progetto non sarebbe mai passato; e invece l’hanno approvato, è stato bellissimo. I ragazzi hanno imparato a cambiare una camera d’aria, a sostituire la catena. Ovviamente c’erano i più scalmanati della scuola, ma forse erano quelli a cui serviva di più”. 

Forse era il linguaggio giusto per raggiungere anche loro. Tu invece da ragazza che rapporto avevi con la bici?

“Io da piccola non facevo niente, nessuno sport. Leggevo un sacco di libri. Poi da ragazza, visto che mio fratello era un istruttore di arrampicata, ho iniziato anch’io; lui però con me era più severo che con tutti gli altri allievi e quindi mi sono stufata presto. È stato lì che ho deciso: prendo una bici e pedalo. Col tempo sono entrata in una squadra ciclistica e ho fatto le prime gare. Poi sono passata alle gare di 24 ore, ne ho fatte più di cento, e ho scoperto la bellezza di farle anche con bici single-speed: pedalando così hai meno scelta, meno opzioni e tutto si semplifica. Da lì poi sono arrivata ai trail e alle lunghissime distanze”.

Sei appena tornata dall’Inghilterra dove hai partecipato alla Londra-Edimburgo-Londra su una Brompton pieghevole. Hai fatto corse su sterrato in Graziella e le ciclostoriche con bici d’epoca. Nella nostra chiacchierata hai parlato di fat-bike e bici single-speed; adesso sei su una gravel. Hai pedalato di giorno e di notte, un po’ ovunque in Italia e in mezzo mondo. Insomma, ti piace provare di tutto. 

“Tutto il mondo delle biciclette per me è un mondo bello. Ho le mie bici del cuore, certo, e con il cuore faccio la maggior parte delle scelte: ad esempio alla LEL sono andata con la Brompton perché è una bici con delle potenzialità; ed è inglese, mi piaceva l’idea di riportarla a correre a casa sua. E anche per ricordare degli amici che non ci sono più e che mi avevano fatto conoscere quel tipo di bici. Poi mi piace sperimentare: sabato vado a fare una gara su pista con una bici degli anni ‘30. Mai corso in pista prima d’ora. Vedremo come va, sarà un’esperienza nuova”.

Il nostro giro si conclude dove è iniziato. Rientriamo a Lomello da una stradina sterrata fuori mano, parlando di altre cose, non solo biciclette; ma è roba che non vi riguarda. Mica posso raccontarvi proprio tutto tutto. 

Ci fermiamo in piazza per le ultime parole e l’immancabile selfie.

Senti, ma tu a uno che non ha mai pedalato, cosa diresti?

“Di non ascoltare la testa, di prendere la bici e andare. È la testa che ti frena. A volte ci si racconta storie: non sono allenato, non ho la bici giusta. Ma non vuol dire niente. Ce le ha le ruote? Allora va bene, prendi e vai. Senza troppe menate. Ti racconto ancora questa: anni fa ho vinto una bici a scatto fisso in una alleycat race, sai quelle gare un po’ clandestine… vabbè insomma, non avevo mai usato una bici così; però ho scoperto una corsa Milano-Venezia solo per fixie e mi sono iscritta, pensando: sono 350 km, prima dell’arrivo avrò imparato a usarla. Eh, insomma, alla prima discesa da un cavalcavia, senza freni e senza ruota libera, ho capito che non sarebbe stato facile. Però in fondo alla corsa ci sono arrivata. Ecco, qualsiasi bici va bene per iniziare ad andare. Basta andare”.

E via, se n’è andata.

Faccio due passi con la mia bici per mano, ufficialmente per sgranchire le gambe, ma più che altro per ruminare le cose ascoltate. Finisce che, a forza di camminare a caso, volto un angolo e mi trovo davanti la facciata della vecchia basilica romanica, che sembra fissarmi pensierosa come se avesse scorto da qualche parte un luccichio inatteso. Cosa guarda? È sempre il solito paese, questo, fatto di una statale, un castello, la stazione e duemila anime strette tra l’Agogna e le risaie. E anch’io sono sempre io, uno dei soliti abitanti qualsiasi di questa campagna piatta. Cos’ha da guardare, dunque? 

Chissà, magari anche a me, di riflesso, forse solo per oggi, si vede un po’ di Alaska negli occhi. 

Grazie Ausilia.

Foto di Auslia Vistarini e Sebastiano Favaro

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Matteo Forti
Matteo Forti
È da quando sono piccolo che cerco di imparare a diventare grande. Nel frattempo sto imparando anche altre cose: un po’ di chimica, un po’ di pazienza, leggere, scrivere, saltare i fossi, andare in bicicletta, metter su famiglia. Vorrei imparare a ragionare bene come il famoso ragionier Gamberoni, quello della medaglia con il buco d’argento. Le storie, secondo me, aiutano. Metto i pantaloni corti tutte le volte che posso, anche in inverno.