Max Weber insegna che il potere è un’entità asimmetrica.
A>B, la formula del potere weberiano.
Tal configurazione politica esprime la capacità di un singolo o di un gruppo di imporre la propria volontà anche contro resistenze predefinite. Il processo è ineluttabile, il potere evidenzia la capacità coercitiva di un soggetto di manipolare gli oggetti in relazione per esprimere la propria visione del mondo.
ll potere contemporaneo si alimenta attraverso le istituzioni, i media tradizionali e le campagne elettorali; l’obiettivo è materializzare la capacità di costruire consenso, influenzare mentalità e rendere naturali determinati comportamenti collettivi.
Per mantenere la propria condizione di egemonia coercitiva, il potere elargisce modelli di imposizione, agendo in maniera pervasiva: modella immaginari culturali, stabilisce ciò che appare “normale” o “giusto” e consolida un senso comune condiviso. Tale aspetto è cruciale per capire i meccanismi odierni di produzione di un ambiente simbolico e narrativo in grado d’indirizzare specifici contenuti in rapporto a singoli eventi.
In questa cornice, si inserisce lo spazio digitale come architettura di potere e le forme minime di resistenza espressiva attribuite al meme.
Il meme come pratica digitale
Il meme, nato come gioco linguistico della rete, è ormai la lingua franca della società digitale. Esso si presenta come forma minima di interpretazione attraverso cui eventi complessi vengono semplificati e resi condivisibili. Nell’era di adozione dei social media, il meme era considerato un divertissement marginale, oggi è diventato veicolo politico, dispositivo di propaganda e al tempo stesso strumento di resistenza.
Il meme è diverso da forme tradizionali di destrutturazione del potere come la satira e la parodia. La satira, tradizionalmente, mira a criticare il potere attraverso l’esagerazione e il sarcasmo, mentre la parodia rielabora un modello noto con intento comico o dissacrante. La satira è un prodotto che analizza il potere portando in evidenza gli elementi sovrastrutturali all’interno di una cornice d’intrattenimento: la risata diventa il mezzo per esaminare le contraddizione dell’agire dell’attore che abita un ruolo di potere. La parodia ha come obiettivo il ribaltamento della funzione segnica; il potere viene trasferito in un’architettura simbolica dissacrante con l’obiettivo di mettere in scena le disgiunture del corpo egemone. Il re è nudo.
Il meme, nasce dall’interno delle comunità online e non presuppone necessariamente un autore riconoscibile o una cornice artistica. È un frammento che circola, si replica e si modifica. Il suo obiettivo primario è ridicolizzare il mondo, smontare la solennità dei discorsi ufficiali e condividere un sentire collettivo immediato. Il meme diventa il linguaggio nativo della rete, capace di condensare interi discorsi politici o esistenziali in un’immagine rapida e riconoscibile.
Niente sfugge alla logica del meme, qualsiasi evento storico e politico si riduce oggi a contenuto replicabile e decontestualizzato che scopre nella viralità digitale la sua dimensione di rilevanza pubblica.
Il meme amplifica il potere
La memeficazione del potere può essere letta come riflesso dell’impossibilità dell’interpretazione, come condizione espressiva della contemporaneità e come dispositivo del capitalismo digitale. Da un lato, il potere nella sua funzione coercitiva appare troppo grande, distante e complesso per essere compreso; quindi, la riduzione a meme funziona come difesa psichica collettiva, un modo per ridere o giocare con l’orrore e renderlo più sopportabile.
Facciamo un esempio per capire meglio il senso di quest’analisi.
Pochi giorni fa, il Dipartimento della Sicurezza Interna degli USA ha pubblicato un video che integra immagini reali di attività di utilizzo della “forza” in specifiche aree(guerre interne?), nello specifico arresti di migranti con scene tratte dal franchise Pokemon, utilizzando il claim classico del prodotto; “Gotta Cath Em All”.
Nel video, i detenuti sono “marchiati” con carte Pokemon fittizie, che mostrano crimini, attributi e statistiche come fossero i mostriciattoli da collezionare.
Il video, evidenzia una sovraposizione dei piani: cultura pop e potere coercitivo producendo un ibrido disturbante ma allo stesso tempo virale e dotato di aurea memetica. Tale interpretazione del segno suggerisce l’attività del giocare con la “realtà” riducendo la drammaticità del contesto dell’uso politico della “forza”, sempre più asfissiante, in una cornice di diffusione mediatica. Trasfigurare un atto di guerriglia urbana a meme deresponsabilizza moralmente l’agire politico: il video si configura come intrattenimento da scrollling, l’ennesimo spettacolo da diffondere per il proprio pubblico inserendosi nello spazio simbolico del meme, riducendo la drammaticità dell’evento in burla da condivisione.
Il tema portante in questo caso è la consapevolezza dell’amministrazione Trump d’integrare il meme nello strumentario propagandistico istituzionale. Il meme non è un mezzo utilizzato al fine di dissacrare un’attività; in questo caso esso è parte costitutiva dell’attività comunicativa funzionale nel garantire la persistenza del modello coercitivo mediante i codici espressivi delle comunità del digitale.
Tale fenomeno è legittimato dalla dimensione contestuale, il meme rappresenta la grammatica espressiva dominante della nostra epoca digitale. Memare un evento significa appropriarsi di un codice culturale che traduce l’incommensurabile in gesto minimo. Se l’Iliade trasformava la guerra in epopea sacra, oggi il meme la trasforma il gaslighiting del tiranno di turno in serial verticale da smartphone, un contenuto accostato a pubblicità e intrattenimento. Qui risuona la lezione di Baudrillard, per il quale la realtà si dissolve nel simulacro, ridotta a segno e consumo estetico. Il simulacro non soppianta la realtà creando un surrogato arbitrario, un artefatto ibrido; nella sua fase di condivisione virale il simulacro diventa la “realtà” ordinaria perché costruiamo discussioni attorno al quel tema.
La memeficazione è nodo integrante del capitalismo digitale. Le piattaforme premiano ciò che cattura l’attenzione e stimola la condivisione: il dolore dei migranti diventa materiale algoritmico. Ogni immagine di distruzione può essere riusata, remixata, ridicolizzata, inserita in circuiti che generano traffico e valore economico. In questa dinamica si manifesta la costruzione di strategie collettive per gestire il dolore, spesso riducendolo a simboli superficiali che ne neutralizzano la portata. La tragedia diventa merce culturale in formato card, ironia condivisibile.
Ciò che osserviamo è uno stato delle cose che evidenzia come la cultura del meme sia parte significativa dei processi di conoscenza dei fenomeni odierni. Laddove la tragedia della deportazione sarebbe da denunciare e da ammonire, ora è consumata come immagine virale. La memeficazione non elimina il dolore reale, ma lo riproduce come simulacro. Siamo immersi in una iper-realtà della manifestazione del potere: ciò che circola non è la rappresentazione del dolore dei conflitti, ma il surrogato culturale che si autocelebra come realtà da decantare.
Il rischio è duplice: la perdita della capacità critica, perché l’orrore diventa ridicolo e quindi sopportabile e la dissoluzione della dimensione politica, perché il potere, ridotto a contenuto virale, smette di essere interrogato nella sua gravità e trova nel meme uno strumento di riproducibilità ideologica.
Il meme come atto di resistenza
Possiamo invece utilizzare il meme come forza di opposizione ad una condizione egemonica predominante?
Per cercare di rispondere a tale domanda bisogna calarsi nel Medio Oriente e evidenziare la resistenza di Palestinesi in contesto di apocalisse quotidiana.
La Gaza Cola rappresenta il caso di costruzione di un meme come resistenza simbolica. Tutto parte da una bevanda che diventa brand per dichiarare la propria appartenenza politica attraverso i colori, i simboli e commercializzazione economica. Ogni sorso si carica di una presa di posizione, un gesto che sfida i colossi multinazionali percepiti come complici silenziosi del conflitto. Il packaging diventa allora un campo di battaglia miniaturizzato, un manifesto che si tiene in mano e che attraversa la logica del consumo per farsi contro-narrazione.

Il meme diventa un atto di resistenza: condensazione ironica, visiva e immediata, capace di incrinare il pensiero mainstream e di sovvertire la comunicazione dei grandi marchi. La battaglia politica si trasfigura così in dominanza estetica, dove una lattina, un logo deformato o un post virale assumono la forza di un manifesto di riconoscimento.
La logica del meme si estende anche oltre i prodotti fisici. Online circolano loghi deformati di multinazionali, parodie grafiche in cui la Coca-Cola diventa “Gaza-Cola” o in cui i brand più noti vengono accusati con slogan trasformati in accuse morali: genocidio, apartheid, colonialismo. Questi meme visivi sono atti di destrutturazione del conflitto, riprendono linguaggi pubblicitari globali per rovesciarli in armi di critica. La forza del meme esprime un codice comunicato per rappresentare l’indicibile; esso costruisce un’arena situazionista dove la tragedia in atto viene ricollocata in un processo di destrutturazione dell’immaginario economico colpendo la riconoscibilità di un brand globale per fermare la coercizione del potere distruttivo delle bombe.
In questo scenario, la memeficazione evidenzia l’impotenza del linguaggio istituzionale e politico, dove le meta-narrazioni tradizionali non riescono più a generare un orizzonte comune, il meme apre micro-spazi di condivisione, piccoli lampi che condensano frustrazione, solidarietà e rabbia in un’immagine di pochi pixel o in un prodotto da scaffale. Ma questa stessa leggerezza, questa esplosione ironica, porta con sé un rischio che si materializza nella riduzione del conflitto a superficie estetica, dove la resistenza si esaurisce nel like o nell’acquisto simbolico, l’effetto Kefiah per intenderci.
La sfida è comprendere se il meme sia il linguaggio del tramonto della politica o la forma embrionale di nuove comunità simboliche, capaci di scardinare la comunicazione dominante e portare sulla scena globale una domanda di cambiamento e, in questo caso, una richiesta di supporto.

