Ritorno alla guerra

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Nei mesi scorsi, è stato un tema che abbiamo toccato da diversi punti di vista.

Da come è cambiato il modo di raccontarla, e anche come oggi si possa costruire un’alternativa solida partendo dalla cura e diffusione della narrativa (occhio: non narrazione).

Non pensavamo (speravamo, forse) di assistere però a così un tangibile e forse anche sfacciato tentativo di normalizzare il senso di quello che è sempre più un possibile risvolto delle nostre vite.

Già: la guerra, oggi, è lì.

Il termine di un piano che diventa sempre più inclinato, di cui si discute con sempre più frequenza e disillusione, come fosse il termine ultimo di un inesorabile percorso.

Guerra, quindi. Non quella raccontata, non quella giocata, non quella guardata. Quella combattuta.

Quando tutti volevano cambiar nome

È di venerdì 5 settembre la notizia che il presidente Trump ha deciso, con un ordine esecutivo, di ripristinare il nome Department of War per indicare il fu Ministero della Difesa, meglio conosciuto con il nome della sede fisica, il Pentagono.

Il nome era stato precedentemente cambiato nel 1949 da Harry Truman.

Fu una scelta che fecero molti paesi del mondo durante tutto l’arco del ‘900. Un secolo ricco di guerre che ha visto praticamente tutta l’umanità misurarsi -in contemporanea, peraltro- con l’idea di conflitto armato.

L’idea di definire un nuovo immaginario era stata comune: transitare a un principio di “difesa”, dove le armi fossero imbracciate solo per difendersi e mai per attaccare, fu un approccio quasi consequenziale.

È persino curioso considerare che tali determine erano controintuitive rispetto al consolidarsi delle relazioni internazionali della Guerra Fredda, basate sul principio del MAD. Si prepara la guerra, ma ci si considerava tutti per una risoluzione aprioristicamente diplomatica.

Possiamo usare le parole dell’articolo 11 della Costituzione Italiana per descrivere bene il cambio di paradigma, valido un po’ per tutte le nazioni: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. “

In quanti fecero questa scelta?

Diversi.

Per precisione, ecco elencati i vari stati, con il nome di partenza e di arrivo, con l’anno di cambio.

1. Messico (1937): Secretaría de Guerra y Marina → Secretaría de la Defensa Nacional.
2. Danimarca (1950): Krigsministeriet → Forsvarsministeriet.
3. Colombia (1965): Ministerio de Guerra → Ministerio de Defensa Nacional.
4. Italia (1947): Ministeri di Guerra/Marina/Aeronautica → Ministero della Difesa.
5. Stati Uniti (1949): War Department (→ NME 1947) → Department of Defense.

6. Regno Unito (1964): War Office/Admiralty/Air Ministry → Ministry of Defence.
7. Paesi Bassi (1959): Ministerie van Oorlog/Marine → Ministerie van Defensie.
8. Spagna (1977): Ministeri militari separati → Ministerio de Defensa.
9. Cile (1932): Ministerio de Guerra/Marina → Ministerio de Defensa Nacional.
10. Perù (1987): Guerra/Marina/Aeronáutica → Ministerio de Defensa.

11. Portogallo (1950 → 1982): Ministério da Guerra → Ministério do Exército → Ministério da Defesa Nacional.
12. Grecia (1950): Ministero degli Affari Militari → Ministero della Difesa Nazionale.
13. Turchia (anni 1920): Harbiye Nezareti (Ottomano) → Milli Savunma Bakanlığı.
14. Francia (1947 → 1959): Ministère de la Guerre → Défense nationale / Ministère des Armées.
15. Svezia (1920): Krigsdepartementet/Marindepartementet → Försvarsdepartementet.

16. Finlandia (1922): Sotaministeriö → Puolustusministeriö.
17. Brasile (1999): Esercito/Marina/Aeronautica → Ministério da Defesa.

Nessuno voleva fare la guerra. E lo si diceva nelle istituzioni.

Un cambio di paradigma lungo 80 anni

Ora però si torna a “istituzionalizzare” quel concetto, lo si torna a presentare come possibiltà concreto. Trump, nello spiegare la scelta, dice: “È un nome molto più appropriato, soprattutto alla luce del punto a cui è il mondo adesso“, ed è difficile dire se sia uno slancio di sincerità o una velata minaccia.

Il pittoresco “Segretario della Guerra” Pete Hegseth, invece, parla di “ripristinare lo spirito guerriero” (forse lasciandosi trasportare dalle sue convinzioni un tantino radicali), come se l’esercito americano non avesse dimostrato negli ultimi 80 anni di avere uno spirito adatto alla pugna.

Inoltre, c’è un riferimento che sembra allo stesso Truman. Hegseth dice: “Il Dipartimento della Guerra combatterà con decisione per vincere, non per non perdere. Andremo all’attacco, non solo in difesa. Massima letalità, non tiepida legalità. Effetto violento, non politicamente corretto. Faremo crescere guerrieri, non solo difensori.”.

Sembra sottintendere una revisione della definizione di “Operazioni di polizia internazionale”, che nacque dopo la risposta che diede Truman a un giornalista, per descrivere l’intervento americano in Korea nel 1950.

Gli US non combattevano guerre, ristabilivano il diritto internazionale. Ripristinavano “Tiepida legalità“? Ora invece partiranno all’attacco solo nell’interesse esclusivo del paese, anche contro l’idea che ci sia un diritto internazionale che regna sopra tutti.

Di certo, quel “non politicamente corretto” apre degli squarci piuttosto inquietanti, considerato la letalità degli armamenti che già oggi si è potuta notare.

La guerra come segnale di non ritorno

Dichiarazioni di uomini poco avvezzi alla politica, ricchi di fantasie poco concrete e certo pericolose, inadatti a governare un grande paese come gli US. In questa fantasia sfrenata però c’è un fondo di verità.

Vegezio sottolinea nel noto proverbio “Se vuoi la pace prepara la guerra”, che la miglior protezione per evitare uno scontro e esser pronti a sostenerlo: c’è anche però un significato più profondo, ossia che se conosci cosa comporta un conflitto, sai che sia assolutamente da evitare.

Sono concetti radicati nel nostro modo di vedere le cose sin dall’antichità.

Eppure, il mondo si agita e le opinioni pubbliche osservano senza riuscire a svegliarsi. Il torpore di 80 anni di pace incontrastata in Occidente fa pensare che la Pace, intesa come stato duraturo, sia eterna e ormai immutabile.

Certo: è molto difficile se non impossibile che l’Italia e la Francia si dichiarino guerra. Ma può bastare, in un pianeta sempre più glocal?

Il conflitto in Ucraina e le mastodontiche contraddizioni viste con l’incapacità di frenare Israele nel post 7/10 hanno sdoganato quanto il mondo sia in realtà precario e interconnesso, e la guerra un piano inclinato da cui difficilmente si riesce a uscire.

Si sente la mancanza di una generazione che abbia vissuto “direttamente” la calamità di un conflitto esteso a ricordare quanto non ci sia via d’uscita, oggi si fa fatica a rendersi conto che quella deriva sia distruttiva per tutti i contendenti.

Che sappia parlarne senza affossandone il significato, ma tenendolo sempre presente.

Osservatori più accreditati parlano di allusioni, di decisioni già prese, di scenari che conducono senza alternative al confronto armato. E lo fanno mostrando una disinvoltura che è uguale a quella dell’amministrazione Trump, per quanto quest’ultima sia pacchiana e senza cura.

La maledetta banalizzazione

Ci troviamo in un continuo normalizzare parole e temi, affastellando dichiarazioni che andrebbero fatte con molta attenzione e non alla leggera: di contro, un’opinione pubblica assuefatta non comprende la posta in palio, alzando le spalle sempre più spesso di fronte a certe idee.

Un osservatore attento potrebbe notare quanto la retorica stia diventando sempre più minacciosa, incuranti delle simbologie, del timing, anche degli sforzi retorici per dire senza dire.

Prendiamo la parata militare in Cina.

Accolta come la sfilata dei “cattivi” in Occidente, è stata tutta concentrata sulla figura di Putin: in pochi hanno rilevato l’importanza dell’evento osservando Xi Jinping.

Il segretario del Partito Comunista Cinese si è presentato vestito come Mao Tse-tung, ha parlato di ristrutturare l’ordine mondiale (o di disarticolarlo, secondo i nostri punti di vista).

Non ha praticamente mai parlato di nemici o di conflitto, anche per questo fa rabbrividire il riferimento al bivio fra pace e guerra, un’ultima istanza da dentro o fuori che non sembra esser stata colta.

Un’eccezione in un approccio linguistico che, seppur edulcorato rispetto la reale aggressività della superpotenza cinese, è sempre rimasto il più possibile sobrio: questo dovrebbe essere un segnale molto forte, eppure in apparenza snobbato dai nostri media.

Questi sono “i nemici”, quelli che la nostra parte di mondo continua a non saper definire se con la logica antagonista.

Buoni o cattivi, sarà la fine? (semicit)

Un sistema binario che a livello di racconto -partendo proprio dall’uso smodato del termine guerra e dall’area semantica collegata- sviluppa una retorica che normalizza l’idea di guerra, banalizzandola e svuotandola di senso.

Tutto per una scarsa attenzione ai dettagli, con un racconto sommario della realtà che non sa farsi carico della complessità dello scenario dove c’è una corsa disperata ad accaparrarsi il ruolo dei “buoni”, che dovremo essere ovviamente “noi”.

Una faciloneria che lascia sbigottiti, e che emerge anche ai livelli più alti.

Si prenda in esame l’imbarazzante pressappochismo di funzionari come Kaja Kallas, che in uno slancio forse troppo propagandistico ha ricostruito una Seconda Guerra Mondiale che non è mai esistita.

La guerra sta tornando come fenomeno direttamente consequenziale al Secondo Conflitto Mondiale: ripartire dalla Storia per comprendere il presente diventa centrale anche per trovare una chiave di costruzione del futuro.

La Russia ha abbracciato la retorica di liberazione dal Nazismo per giustificare i suoi atti, così come la Cina ha scelto di rievocare il proprio preziosissimo ruolo contro il Giappone per legittimarsi verso il Sud Globale.

Rispondere a questo slancio -anch’esso per certi versi revisionista, certo- non può prescindere da un controllo dei fatti meticoloso e necessariamente fedele.

Il piano inclinato

Alle ricostruzioni nazionalistiche ma anche eroiche, che sottolineano la necessità di riappropriarsi di un “essere dalla parte giusta” o per dirla in termini narrativi, accaparrarsi il ruolo dell’Eroe che combatte il nemico malvagio e senza scrupoli, bisogna rispondere con la realtà dei fatti.

Con consapevolezza e responsabilità, bisognerebbe esporli con dovizia di particolari e nel rispetto di parole che contengono mondi. Ecco perché diventa spaventosa la disinvoltura dei leader (o per meglio dire, di alcuni) a “mostrare i muscoli”.

Si sta preferendo rispondere non sviluppando una narrazione collettiva consapevole, ma con una proiezione per rimanere arroccati a una posizione che per esser legittimata ha bisogno anche di dire bugie (come il discorso della Kallas).

Cancellare la complessità di un fatto storico come la WWII, la quale ha lasciato dietro di sé un’eredità stratificata è un altro effetto di questo sforzo di “normalizzare” il concetto di guerra.

Renderlo di nuovo un argomento per legittimare la propria posizione, non considerando che obbligare qualcun’altro a legittimarci significa andare incontro alla violenza.

La brutale variazione semantica di Trump serve a mostrare di esser pronti anche a cambiare postura, di poter aggredire, siamo pronti anche a tornare all’indicibile

Non ci si faccia ingannare: è solo un modo meno elegante di esprimere una posizione violenta che è ormai più diffusa di quanto si pensi. Lo stesso linguaggio, in altre forme, lo stiamo adottando anche in Europa.

La cosa preoccupante rimane l’incapacità di riconoscere che quel piano inclinato di cui parlavamo sopra è già qui, e i nostri piedi ci sono già ben piantati sopra.


Scivolare verso il baratro potrebbe essere questione di un attimo. Questa volta, però, non sarà una simulazione.

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Francesco Gavatorta
Francesco Gavatortahttps://francescogavatorta.com/
Leggo, scrivo, gioco a Football Manager, guardo il calcio e la boxe e ogni tanto li pratico entrambi. Mi piacciono le storie. Ho fondato Humanist.