Spot Wars: pubblicità e propaganda

Pubblicato in

La pubblicità è sempre stata molto più di un semplice strumento commerciale. Secondo Edward Barneys, la società di massa necessita di ancore di significato cui orientarsi nello spirito oggettivo del tempo; la pubblicità diventa un mezzo d’ingegneria del consenso dove la costruzione sistemica di simboli, marchi e narrazioni ha come obiettivo plasmare il vissuto degli individui, sospesi in spettacoli permanenti. In contesti di tensione sociale e politica, la pubblicità diventa un dispositivo di significazione che può rafforzare identità, polarizzare comunità e amplificare conflitti già in atto. Lo spot di American Eagle con protagonista Sydney Sweeney, rappresenta un esempio paradigmatico di come un messaggio pubblicitario apparentemente leggero e “pop” possa essere interpretato come un manifesto politico.

Le accuse di eugenetica, rivolte al modo in cui lo spot avrebbe celebrato la figura della “bionda” come modello femminile ideale, rivelano quanto la cultura americana sia intrappolata in una spirale di guerre culturali in cui anche l’abbigliamento e le star televisive diventano simboli di un conflitto politico, avviando una trasfigurazione simbolica della polarizzazione tra tribù eterogene nello spazio dell’immaginario.

Lo stereotipo della “bionda”

Sydney Sweeney, protagonista della vicenda, incarna una specifica estetica: capelli biondi, tratti dolci, sensualità esibita ma mai apertamente aggressiva. Una rappresentazione idealtipica della “donna” che si inserisce in una lunga genealogia della rappresentazione femminile americana come simbolo di purezza, desiderabilità e superiorità estetica. Da Marilyn Monroe a Britney Spears, l’icona bionda è stata sia un modello di aspirazione sia un oggetto di critica. Lo spot dei jeans non inventa nulla di nuovo, ma ripropone una stereotipizzazione della donna in un momento storico in cui la società americana è più sensibile che mai alle questioni di inclusione e rappresentazione.

Tale fenomeno conduce ad una frattura interpretativa che moltiplica le voci nel merito dello spot: laddove alcuni vedono solo glamour e nostalgia pop, altri leggono un sottotesto di esclusione, un ritorno a un’idea di femminilità normativa, bianca e standardizzata.

L’elemento rivelatore e scatenante del dibattito attorno alla diffusione dell’artefatto, avviene a causa della battuta della Sweeney che gioca con l’assonanza tra “Jeans” e “Gene”, ovvero “gene” genetico. Un espediente retorico, apparentemente innocuo, diventa così il fulcro delle critiche: la pubblicità connoterebbe un messaggio “eugenetico”, ovvero che la bionditudine e l’estetica incarnata dall’attrice siano iscritte nel patrimonio genetico come un destino biologico. In un contesto attraversato da discussioni accese sul suprematismo bianco, sul privilegio e sulle discriminazioni sistemiche, un gioco linguistico diventa un enunciato performativo di tensioni politiche.

Il passaggio dal livello pubblicitario a politico diventa destino ineluttabile: il linguaggio, volutamente ambiguo, apre la porta a interpretazioni che vanno ben oltre il prodotto venduto, generando una sovrapposizione tra pubblicità e propaganda.

Pubblicità e guerre culturali

Negli Stati Uniti, le guerre culturali sono ormai un dispositivo permanente della vita pubblica. Temi come “razza”, genere, sessualità, religione e libertà individuali vengono costantemente polarizzati tra una destra alt-right che difende valori tradizionali e una sinistra liberal e woke che spinge verso inclusione e giustizia sociale. Lo spot con Sidney Sweeney si configura come un detonatore in grado di far esplodere il dibattito politico attorno al tema della costruzione del suprematismo estetico bianco.

In tale scenario, lo spazio politico ingloba le tensioni sociali all’interno di un contesto di comunicazione che rende l’immaginario collettivo una struttura di costruzione di significati condivisi da utilizzare come stendardo per valorizzare la propria battaglia politica. Ogni immagine, ogni parola, ogni scelta estetica viene subito sottoposta a un processo di politicizzazione. Lo spot non è soltanto pubblicità ma si caratterizza come una forma di propaganda culturale, strumento amplificativo di valori politici.

Le guerre culturali producono l’effetto di spostare l’attenzione da questioni materiali, come disuguaglianze economiche, precarietà del lavoro o cambiamento climatico, a questioni simboliche legate a identità e rappresentazioni. Lo spot della Sweeney, amplificato dai media e dai social, diventa una deviazione simbolica al testo politico: invece di discutere di politica economica o riforme sociali, l’opinione pubblica si divide sulla rappresentazione estetica di una donna. La pubblicità agisce come strumento di rappresentazione simbolica del contesto politico, un fenomeno che rafforza il potere delle élite nel mantenere intatte le strutture economiche dominanti utilizzando l’immaginario come leva di consolidamento del proprio status.

La forza della pubblicità è insita nella sua capacità di agire su due livelli: commerciale e ideologico. Da un lato, promuove dei jeans un prodotto di consumo, legato a un’estetica giovanile e ribelle. Dall’altro, normalizza un modello estetico e culturale che si inserisce perfettamente nel dibattito politico americano. La bionda sorridente, il gioco sui geni, l’idea di una bellezza predeterminata, elementi comunicativi che concorrono ad inserire il racconto in un immaginario che trasfigura l’incapacità politica di proporre un progetto di visione comunitaria, in un enunciato rappresentativo in grado di costruire l’identità di un gruppo specifico per condurre la propria battaglia culturale.

In questo senso, la pubblicità diventa propaganda (in)volontaria; la cultura pop anziché essere un terreno di evasione, si trasforma in una cassa di risonanza delle guerre culturali.

Pubblicità è propaganda

La pubblicità in oggetto è esemplare di un fenomeno più ampio: la trasfigurazione del messaggio commerciale in una forma di propaganda valoriale. In un’epoca in cui la politica tradizionale fatica a mobilitare i cittadini, sono i simboli culturali a svolgere questa funzione. Film, serie TV, videogiochi, musica e, in questo caso, pubblicità, diventano armi simboliche in una guerra senza fine.

Il fatto che la polemica nasca attorno a un paio di jeans è, in fondo, irrilevante: ciò che conta è che lo spot diventa una lente attraverso cui leggere l’America divisa, polarizzata, incapace di discutere di temi concreti senza che questi vengano filtrati attraverso simboli culturali.

American Eagle dimostra che, nelle guerre culturali americane, nulla è neutrale. Un paio di Jeans non si sottraggono alla logica del potere mediatico(politico). L’estetica pop, i giochi linguistici e i simboli mediatici diventano strumenti di lotta politica, amplificando la divisione tra woke e alt-right. La pubblicità, lungi dall’essere un territorio leggero e privo di conseguenze, si conferma come uno dei principali canali attraverso cui la società americana mette in scena le proprie tensioni.

In tale contesto di fibrillazione politica, la pubblicità è un documento pragmatico del tempo presente: un frammento di cultura pop che racconta di un’America ossessionata dall’identità, incapace di sottrarsi alla polarizzazione, in cui anche la moda diventa politica.

Ma a quale prezzo?

Raccomandati da Humanist

Alberto Smaldone
Alberto Smaldone
Cerco di guardare il mondo "di sbieco": osservando i margini per decifrare il centro. Indago il confine tra media, società e cultura.