Anche se non lo ammettiamo, la pubblicità ci piace

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Ti ricordi almeno un tormentone pubblicitario?

Sono pronto a scommettere sul sì. Magari è una frase che hai sentito mille volte in tv, una canzone che ti torna in mente senza preavviso, uno slogan che associ a un momento preciso della tua vita.

Curioso, vero? Spesso diciamo che la pubblicità è invadente, interrompe (o interrompeva) la nostra quotidiana fruizione di contenuti piacevoli, eppure alcune campagne ci restano addosso, diventano parte del nostro immaginario collettivo.

La pubblicità è ovviamente cambiata negli anni: dagli slogan della cartellonistica per esterni, passando per i claim martellanti della televisione siamo arrivati a narrazioni sempre più sofisticate, diffuse sulle piattaforme digitali, capaci di costruire veri e propri mondi attorno ai brand.

Nel panorama della pubblicità, molti grandi nomi hanno lasciato il segno non solo con le loro campagne, ma anche con i loro scritti. Alcuni hanno codificato la disciplina con manuali rigorosi e strutturati, mentre altri hanno scelto la via della narrazione per trasmettere la loro esperienza.

Jacques Séguéla appartiene senza dubbio a questa seconda categoria.

Non dite a sua madre che fa il pubblicitario

Il suo libro più noto, “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello”, è un perfetto esempio del suo stile: irriverente, diretto e profondamente legato all’esperienza sul campo. A differenza di molti colleghi che hanno scritto saggi più metodici, Séguéla sceglie di raccontare la pubblicità attraverso aneddoti e storie vissute, trasformando un libro di settore in una lettura avvincente.

Nel libro, il suo approccio emerge chiaramente: la pubblicità è prima di tutto una questione di intuizione, creatività e capacità di leggere il mondo reale. Invece di schematizzare regole fisse, Séguéla trasmette i suoi insegnamenti attraverso episodi vissuti, mostrando come il pensiero pubblicitario si costruisca strada facendo.

Uno show don’t tell della saggistica.

Umanizzare i brand significa umanizzare il mestiere

Oggi è molto diffuso il concetto di brand humanization, il processo attraverso cui i marchi cercano di diventare più autentici, vicini alle persone, capaci di comunicare emozioni e valori. Ma dietro l’umanizzazione dei brand ci sono le persone che li raccontano. E Jacques Séguéla è stato un maestro nel dare umanità al suo stesso modo di fare pubblicità.

Nel suo libro non troviamo semplici case study, ma avventure vissute, incontri decisivi, intuizioni geniali nate spesso dal caso o dall’osservazione della vita reale. Il suo modo di raccontare la pubblicità è umano perché parte dalle persone e dalle loro storie, non da formule o strategie preconfezionate.

In un’epoca dominata dai dati, dagli algoritmi e dall’iper-targettizzazione, questa lezione suona quasi rivoluzionaria: i brand non possono umanizzarsi se chi li racconta non ha un approccio autentico e umano alla pubblicità.

Penso che sia un libro davvero umano anche perché, a differenza di molti manuali scritti con il ‘senno di poi’, “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario…” è stato pubblicato nel 1979, quando Séguéla era ancora nel pieno della sua crescita professionale. Non si tratta quindi di un libro scritto da un “arrivato” che ripercorre la sua carriera con uno sguardo nostalgico e saccente, ma di un racconto vissuto in tempo reale.

A volte pare di scorgere anche un po’ di incertezza (n.d.a.).

Al momento della pubblicazione, Séguéla aveva già ottenuto successi importanti, ma non aveva ancora raggiunto l’apice della sua carriera. Le sue campagne più iconiche, come quella per François Mitterrand (“La forza tranquilla”, 1981) o il celebre stunt della Citroën con il logo proiettato sulla Luna, sarebbero arrivate dopo. Questo significa che il libro non è il manifesto di un pubblicitario ormai affermato, ma il racconto di un professionista che sta ancora costruendo la sua strada.

E proprio questa autenticità lo rende così potente. Il suo libro non è un elenco di strategie codificate o di principi teorici, ma il riflesso di un mestiere vissuto sul campo, fatto di intuizioni, errori, incontri e momenti di genio.

In questo senso, altri giganti della pubblicità hanno scritto testi più strutturati, veri e propri manuali:

  • David Ogilvy (Confessions of an Advertising Man) ha adottato un tono autobiografico, ma con un’impronta molto più metodica, offrendo principi e strategie chiare per il mestiere.
  • Al Ries & Jack Trout (Positioning: The Battle for Your Mind) hanno reso la pubblicità una scienza esatta, con teorie precise su come posizionare un brand nella mente del consumatore.
  • Philip Kotler, considerato il padre del marketing moderno, ha scritto testi accademici che offrono un quadro completo della disciplina, con modelli e metodologie replicabili.

Séguéla, invece, è più vicino alla figura del narratore, del romanziere che condivide le sue avventure nel mondo della pubblicità, offrendo lezioni attraverso storie vissute piuttosto che attraverso regole fisse.

Perché la pubblicità ci piace (anche se non lo ammettiamo)?

La pubblicità è un paradosso.

Sappiamo bene che il suo scopo è vendere, eppure alcune campagne ci emozionano, ci restano impresse, diventano parte del nostro immaginario. Non si tratta solo di una questione di creatività o di estetica ben riuscita. La pubblicità, quando è fatta bene, risponde a un bisogno profondamente umano: la ricerca di connessione.

Non è solo un messaggio, è una relazione compressa in pochi secondi, un ponte costruito nel tempo di uno sguardo. E funziona quando riesce a farci sentire parte di qualcosa di più grande di noi, quando ci restituisce un frammento di identità, quando ci dice, con la rapidità di un battito di ciglia: ti vedo, so chi sei, questo è per te.

Credo che la pubblicità ci piaccia perché è uno dei più veloci atti di umanità.

È una promessa istantanea di bellezza e connessione. Ci riconosciamo in essa, ci lasciamo emozionare, ridiamo, sogniamo, ci sentiamo parte di un’idea, di un’atmosfera, di un piccolo frammento di mondo che, seppur fittizio, ci parla.

La pubblicità migliore non è solo strumento ma un dialogo accelerato tra brand e pubblico, tra il desiderio e la realtà, tra il qui e l’altrove.

Credo che questa sia la sintesi di ciò che ho trovato nel libro di Séguéla: la pubblicità non si può schematizzare. È intuizione, è rischio, è un mestiere fatto di pelle, di istinto, di emozioni rapide che devono colpire nel punto giusto.

Diventa così un atto di relazione.

E forse è proprio per questo che, anche se non lo ammettiamo, la pubblicità ci piace.

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Massimo Benedetti
Massimo Benedetti
Dicono che so mettere a proprio agio le persone. Ascolto e leggo molto, scrivo e sono innamorato. Humanist è il mio spazio preferito.