Va bene, vediamo di sbrigarci con l’ovvia e deprimente premessa: viviamo nel mondo delle playlist che scorrono veloci, fatte di brani saltati dopo pochi secondi ed algoritmi che ci propongono musica usa-e-getta tarata su una banale approssimazione dei nostri gusti. Piene zeppe di brani generati da intelligenza artificiale, firmati a nome di artisti inesistenti, hanno l’unica funzione di arricchire l’avido e arcinoto servizio di streaming, contribuendo alla non-formazione di un autentico gusto musicale dell’ascoltatore.
E a questo impoverimento, che rasenta la più barbara distruzione di quella che tra le arti umane è tra le più nobili, bisogna ribellarsi con tutta la forza che abbiamo in corpo.
Un punto di partenza appropriato per mettere il primo mattone del fortino nel quale nascerà la nostra rivoluzione è proprio la musica del compositore italiano Giacinto Scelsi (Arcola, 1905 – Roma, 1988) che, quasi in maniera profetica, si ritrovò a comprendere a pieno la profondità dell’esperienza uditiva, basando la sua produzione musicale su un’idea che inevitabilmente forza l’ascoltatore a concentrarsi sulle minime sfumature del suono.

È inutile provare a nascondersi dietro un dito: la musica di Scelsi ci può spiazzare brutalmente anche se abbiamo l’orecchio allenato; ma, se gli diamo una possibilità, col passare dei minuti ci può guidare in un diverso stato di percezione più attento e ricettivo. Per utilizzare un termine moderno, la musica di Scelsi può creare una sorta di mindfulness sonora, in cui l’attenzione al suono deve essere totale, in quanto contenitore di un microcosmo, entità viva e multidimensionale tutta da esplorare.
Ma se vogliamo essere onesti, forse sto semplificando eccessivamente.
Meglio provare a rendere il giusto tributo alla sua arte, quindi indossiamo l’elmo e procediamo.
Giacinto Scelsi nasce a La Spezia da una famiglia nobile che gli consente di trascorrere un’infanzia anacronistica condita da una istruzione fuori dagli schemi: egli crebbe nel castello materno in Irpinia dove ricevette lezioni private di latino, ma anche di scherma e scacchi. Questa infanzia solitaria contribuì probabilmente ad alimentare quel lato introverso della sua personalità, segnato da un bisogno di isolamento.
La formazione musicale vera e propria inizia a Roma, ma gli stimoli maggiori arriveranno in seguito ai suoi viaggi che gli consentirono di avvicinarsi a tante figure dell’avanguardia europea: alle precoci influenze neoclassiche italiane, in particolare quelle della musica di Ottorino Respighi, si affiancheranno presto quelle del compositore russo Skrjabin, la cui concezione mistica della musica, intrecciata alla sinestesia, colpì profondamente l’immaginario di Scelsi.
Successivamente ebbe la possibilità di studiare con Water Klein, un allievo di Arnold Schönberg che gli consentì di comprendere i principi della dodecafonia.
Anche se affascinato dal lirismo di Alban Berg (altro noto allievo di Schönberg) Scelsi non si sentì mai completamente a suo agio col rigido stile formale della Seconda Scuola Viennese.
È proprio durante questo periodo che nascono la Sonata per pianoforte no. 3 (1939), dove le influenze di Berg e Scrjabin sono più che evidenti, sopratutto il Quartetto no. 1 dove nella ripetizione ostinata di un alcuni suoni si intravede già l’ombra delle sue future ossessioni espressive: si tratta del primo barlume di una progressiva rinuncia alla struttura formale e musicale, il primo passo di un cammino che lo porterà ben presto ad abbandonare del tutto non solo la forma, ma anche l’idea tradizionale di musica intesa come successione ritmica di altezze.
È con il ritorno a Roma che vediamo emergere la vera personalità artistica di Giacinto Scelsi. Infatti in seguito ad una vera e propria crisi, un esaurimento nervoso dovuto probabilmente alla fine del suo matrimonio, avviene un avvicinamento da parte del compositore alla filosofia orientale. Questo vero e proprio spartiacque diede il via ad una ricerca quasi ossessiva sulla purezza del suono, portandolo a scoprire come concentrare l’intera tensione musicale su una sola nota e sulle sue micro-variazioni timbriche e di altezza.
Nonostante le sporadiche collaborazioni con esponenti della scena musicale romana (tra cui il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, fondato da Franco Evangelisti del quale ha fatto parte anche Ennio Morricone), Scelsi preferì l’isolamento, perseguendo i suoi metodi di composizione inusuali per il contesto storico degli anni ’50 e ’60, dominato dall’avanguardia post-weberniana e da sperimentazioni elettroniche.
In un’epoca in cui i suoi colleghi italiani (Berio, Nono, Maderna) esploravano serialismo integrale, il nastro magnetico e nuovi linguaggi strutturali, Scelsi si sottrasse alla ricerca di complessità formali per rivolgersi all’interiorità del suono: questa scelta controcorrente lo rese a lungo una figura marginale, con il risultato che la musicologia ufficiale faticò a inquadrarlo, tanto che fu talvolta liquidato come eccentrico.
Oggi però Giacinto Scelsi è riconosciuto come una figura di culto nel panorama del secondo Novecento e l’importanza del suo contributo è ampiamente rivalutata. Se in vita fu a lungo poco eseguito (il vero successo internazionale arrivò solo negli anni ’80, poco prima della sua scomparsa), nel decennio successivo la sua opera ha conosciuto una riscoperta. La Fondazione Isabella Scelsi è stata istituita nel 1990 per tutelare e diffondere il suo lascito e numerosi interpreti hanno inciso integralmente le sue opere, contribuendo a formare nuove generazioni di ascoltatori e compositori.
La sua eredità risplende in molti ambiti: nelle composizioni sperimentali che fondono musica e meditazione, nelle improvvisazioni sul singolo tono, ma anche nelle colonne sonore di generi più disparati. La sua figura è diventata quasi leggendaria, alimentata anche dall’aura di mistero che lui stesso costruì (niente fotografie pubbliche, poche interviste, un’aria da “sciamano” del suono).
A più di cento anni dalla nascita, Scelsi non deve più essere un nome per soli iniziati: è entrato nel canone della musica contemporanea, rappresentando il versante mistico e introspettivo della modernità. La sua lezione, che la musica è prima di tutto atto volontario di ascolto, è un concetto che oggi più che mai dobbiamo fare nostro.
Ma adesso basta con queste chiacchiere e passiamo alla sostanza, andiamo a vedere insieme le tre opere di Scelsi che ho scelto di analizzare.
Giacinto Scelsi: quattro pezzi su una nota sola (1959)
Composto per orchestra da camera, Quattro pezzi fu il lavoro che rivelò al mondo la nuova direzione intrapresa da Scelsi. Si tratta di un brano diviso in quattro movimenti, ciascuno incentrato interamente su un’unica altezza sonora (per la cronaca: Fa, Si, La♭ e La, uno per ogni movimento).
La monotonia però è solo apparente, perché Scelsi dimostra che una sola nota può diventare materia viva e cangiante, da esplorare in tutte le sue dimensioni timbriche e ritmiche.
L’orchestra è usata in modo originale: gli strumenti sono accoppiati su intonazioni leggermente diverse (ad esempio sfasate di un quarto di tono) per generare battimenti e tumulti interni al timbro sonoro, mentre le percussioni intervengono per sottolineare cambi di intensità ed energia.
Quello che accade è qualcosa di speciale: la singola nota si trasforma in un prisma sonoro in quanto scomposta nei suoi armonici, fatta pulsare attraverso dinamiche contrastanti, arricchita da tremoli, oscillazioni di intonazione e orchestrazioni insolite.
Quattro pezzi fu il primo brano composto dopo la crisi che rappresentasse compiutamente la sua nuova estetica e non a caso Scelsi lo considerava forse la sua opera più significativa. L’ascoltatore, se si lascia trascinare, viene attirato al centro del suono, che diventa quasi un centro gravitazionale in grado di portarlo in un viaggio interiore tanto angoscioso quanto illuminante .
Quattro pezzi ebbe la prima esecuzione a Roma nel 1959 e da allora rimane uno dei brani più eseguiti di Scelsi.
Anahit (1965)
Se Quattro pezzi rappresenta il manifesto, Anahit ne è l’elegante sviluppo. Il brano, sottotitolato “poema lirico dedicato a Venere” (Anahit richiama infatti il nome di una dea della fertilità), è scritto per violino solista e 18 strumenti. Viene spesso considerato dalla critica il capolavoro orchestrale di Scelsi, capace di essere una sintesi potentissima di elementi mistici, sensuali e innovazione musicale.
La struttura di Anahit è semplice: un singolo movimento continuo, in cui il violino solista intesse un canto ornamentale al di sopra di un tappeto orchestrale.
All’inizio il clima è sospeso, quasi galleggiante: il violino però emerge gradualmente in dissonanza, grazie anche all’uso estensivo di trilli e microtoni. Man mano però la tensione cresce e la musica compie un’ascesa, come se la luce di Venere sorgesse all’orizzonte sonoro in una continua trasfigurazione, fino a raggiungere un climax di luce massima, dopodiché il brano si dissolve. Scelsi stesso descrisse Anahit come “il punto giusto” (la note juste), forse ad indicare l’incontro tra la dimensione umana e quella divina del suono.
Il solista, che deve essere un musicista di grande finezza in quanto deve dominare il linguaggio microtonale ed i suoni flautati con intonazione precisissima, sembra cantare con passione, seppure in un assolutamente non convenzionale. Questa fusione di antico-primordiale e di nuovo-dirompente dona al pezzo un fascino unico: è sia un concerto per violino sui generis, sia un rituale sonoro dedicato a una divinità cosmica dal sapore vagamente lovecraftiano.
Anche la vista della partitura di Anahit produce un effetto emotivo, in quanto Scelsi annotò precisamente ogni minima evoluzione sonora, conferma di come riuscì a combinare la sua rivoluzione con una comunicabilità emotiva quasi inaspettata.
È musica astratta, sì, ma mai fine a se stessa, in quanto intrisa di un sentimento di adorazione. Questa duplice natura fa sì che Anahit parli sia alla mente che al cuore dell’ascoltatore ed è il motivo per cui viene considerato uno dei vertici della produzione di Scelsi.
Uaxuctum (1966)
L’aspetto contemplativo e luminoso della musica di Scelsi che emerge da Anahit non si ritrova in Uaxuctum, che al contrario ne rappresenta un lato più oscuro e apocalittico.
Il brano porta come sottotitolo “La leggenda della città Maya Uaxuctum, distrutta dai suoi stessi abitanti per ragioni religiose”, dichiarando esplicitamente un contenuto programmatico.
Sul piano creativo, Uaxuctum testimonia la totale libertà di Scelsi da qualsiasi convenzione. Egli stesso, negli anni ’60, dichiarò con orgoglio di aver “dimenticato tutto quello che sapeva sulla musica”. Quest’opera non segue infatti né forme classiche né seriali; la sua logica interna è quasi cinematografica o rituale, Scelsi infatti costruisce una drammaturgia del suono in cui l’unità non è data da temi ma da atmosfere successive, come le scene di un affresco.
Eseguita la prima volta nel 1969, l’opera è strutturata in cinque movimenti ed è scritta per un organico molto ampio: oltre all’orchestra sinfonica tradizionale (arricchita da un gran numero di strumenti a percussione), vi è un coro che vocalizza senza testo (utilizzando sillabe arcaiche e vocalizzi, come uno chant rituale) e soprattutto l’Ondes Martenot, uno strumento elettronico pionieristico che Scelsi aveva già adoperato in altre opere.
Con il suo timbro inquietante e mistico, spesso all’unisono con le voci, l’Ondes Martenot evoca presenze spettrali e aggiunge un ulteriore colore ultraterreno al suono d’insieme.
Scelsi sperimenta ancora con la microtonalità su larga scala: l’atmosfera del brano è cupa, tesa e percorsa da un perenne senso di tragedia imminente. Ci sono anche dei silenzi, ma spesso squarciati da violente esplosioni onore. Ottoni e percussioni emergono in rilievo con figure ritmiche lente e solenni, che sembrano richiamare antichi segnali di guerra con altri momenti in cui le voci del coro intonano cluster dissonanti o glissando lenti, come i lamenti del popolo.
Verso la fine dell’opera, infatti, la tensione raggiunge l’apice: un crescendo di percussioni tribali e grida corali sembra evocare il momento della distruzione. Poi Uaxuctum si chiude in un modo sorprendente: invece di un fortissimo cataclismico, Scelsi lascia affiorare un silenzio carico di echi, come il silenzio che segue all’annientamento.
Per l’epoca Uaxuctum era un brano di un’audacia straordinaria, ben pochi compositori avevano osato combinare coro e orchestra in modo così anticonvenzionale. Non ci sorprende infatti che l’accoglienza in Italia fu tiepida, mentre in Francia e altrove il brano destò meraviglia per la sua forza visionaria. Oggi Uaxuctum è considerato un vertice dell’espressionismo mistico in musica, una sorta di colossale rito sonoro unico nel suo genere che ci consegna la visione di Scelsi al suo apice: distruggere le forme per far nascere dalle macerie un’esperienza musicale totale, in bilico tra distruzione e trascendenza.
Questo in teoria è il punto in cui vi dico che ascoltare Scelsi vi farà bene, che vi aiuterà con la progressiva atrofizzazione della soglia dell’attenzione causata dai social network brainrot, che è un esperienza di contatto con una arte pura, fatta di imperfezioni, che si erge a testimonianza del potere insostituibile dell’intuizione umana, perché è musica che non mira al consenso o al consumo, ma al regalarci un’esperienza profonda, che poi è il motivo per il quale vale la pena vivere ecc ecc.
La realtà è che molto probabilmente dopo poche decine di secondi penserete “ma che è sta roba” e tornerete immediatamente alla musica che ascoltavate quando eravate teenager ingenui e forse innamorati.
Ed è giusto anche questo.
Quello che è importante capire è che l’ascolto di un brano di Scelsi è un tipo di fruizione diversa, è un atto di ribellione poetica: ci si ritaglia uno spazio di tempo dilatato in cui il suono diventa universo, nel quale ci si lascia inghiottire per riscoprire un rapporto autentico con la musica, fatto di attenzione, stupore e contemplazione.
Qualità di cui abbiamo quanto mai bisogno oggi, per non smarrire la nostra umanità sonora nell’era delle macchine che crediamo intelligenti.