La Pace, partendo (anche) dalla narrativa

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In questi mesi ho combattuto tantissimo per sottolineare le differenze semantiche fra i termini Narrazione a Narrativa.
L’ho fatto nei luoghi a me più congeniali, anche esponendomi molto.

Torno a farlo qui, perché se c’è un luogo dove forse poterne parlare, beh, quello è Humanist.

Lo faccio entrando in un territorio minato, che da alcuni anni occupa le pagine dei giornali in maniera collaterale a un fatto storico che sta cambiando, in maniera anche repentina, gli scenari geopolitici: l’aggressione russa all’Ucraina.

Ho già parlato di guerra e del suo racconto.

Qui vorrei ragionare sul come costruire un immaginario legato a un fenomeno macro-storico, uscendo anche dalla grande narrazione collettiva con cui si orientano le coscienze.

Prima di cominciare, un disclaimer

Essendo un convinto sostenitore delle norme internazionali, considero l’occupazione del territorio ucraino sin dalla presa della Crimea nel 2014 un’operazione non ricevibile.

La Russia è paese aggressore secondo le norme internazionali e l’Ucraina rimane paese aggredito.

Dal punto di vista storico il percorso di avvicinamento al 24 febbraio 2022 sia ricco di punti interrogativi che pongono domande sul come si sia arrivati a questo epilogo.

Non sta a me dirlo e certo, non in questo contesto.

Lascio parola a osservatori più quotati di me.

Qui voglio però sottolineare come la ricerca della Pace sia fine ultimo e indispensabile: una Pace giusta, dove l’aggredito venga risarcito e l’aggressore veda i propri comportamenti censurati, e dove i migliaia e migliaia di morti trovino giustizia.

È giusto ribadirlo, perché il tema è molto delicato e non vorrei urtare sensibilità o creare fraintendimenti (anche con persone cui voglio bene e che vivono tutto questo come parte in causa).

Ora, cominciamo

Come ho detto altrove, la Narrativa non è Narrazione.

Lo dice l’Accademia della Crusca, e questo mi conforta. Cosa c’entra la narrativa con la guerra?

Sono convinto che l’accettazione del fenomeno “Guerra” parta da piani diversi di senso.

Nell’ultimo triennio l’ineluttabilità dello scontro fra civiltà (ad Huntington piacerebbe questo elemento) sembra esserci raccontato come un fenomeno inarrestabile, soprattutto in virtù dell’aggressione russa all’Ucraina.

A differenza però di quanto succede rispetto a un’altra aggressione, decisamente più cruenta visto il popolo aggredito, (e sì, parlo proprio dell’invasione di Gaza) la reazione occidentale ha visto una generale censura della dimensione culturale russa.

All’indomani del 24 febbraio 2022, infatti, furono diverse le Università che boicottarono in segno di solidarietà alcuni corsi, seminari e verticali culturali su autori e autrici russi.

Ne parlò apertamente lo scrittore e studioso Paolo Nori, colpito direttamente da una censura che -ai tempi- non sollevò chissà quanti voci contrarie.

Fu un fenomeno che all’epoca trovai, seppur spaventato dall’aggressione russa e solidale con il popolo ucraino, piuttosto fuori contesto e anzi dannoso.

Che male aveva fatto la narrativa russa? E come questo processo di rigetto di segmenti così basilari della nostra civiltà potevano essere segnali corretti per affermare la superiorità del diritto internazionale rispetto a una vile aggressione militare?

Sembrava che le colpe dei figli ricadessero sui padri.

Evidentemente non possono rigettare le scelte dell’attuale leadership autocratica russa, fatto salvo che anche quei padri hanno contribuito alla nostra formazione.

C’è un ecosistema culturale russo che ruota attorno alla narrativa che ritengo preziosissimo e che non può essere rigettato, proprio perché componente fondamentale dello sviluppo di un senso critico dell’esistente che impregna anche il “nostro” Occidente.

E non riconoscerlo, o peggio diluirlo a livello di senso in un confuso quanto vergognoso misunderstanding linguistico (come il cortocircuito neologistico narrazione-narrativa, che tanto va di moda nei salotti cultural-chic italiani), è quanto di più dannoso possa essere.

La narrativa come ponte

Si potrebbe dire che lo stesso fenomeno stia avvenendo con un silente processo di revisionismo storico relativo alla Seconda Guerra Mondiale.

Con l’obiettivo di aumentare lo spirito nazionalista, la retorica guerrafondaia attorno alla vittoria contro il NaziFascismo ha avuto in Russia una forte impennata nell’ultimo triennio.

Per questo il 9 maggio sia una delle feste più celebrate dal regime.

È un fatto storico che l’Unione Sovietica contribuì con milioni di vite alla sconfitta tedesca e che fu una grande vittoria per il popolo russo.

Altrettanto vero è che il regime sovietico fu per anni visto con sospetto dei paesi Alleati, che ricevettero anche l’offerta tedesca di cessare i combattimenti a Ovest per continuare la guerra a Est (offerta poi rifiutata).

Leggere oggi quei fatti sembra remoto: ma il rispetto della memoria dei caduti in una guerra come quella non dovrebbe avere colore.

Putin agita quel fatto storico a suo uso e consumo, mentre la reazione occidentale sembra essere quasi di rifiuto… quando la Storia dovrebbe essere di tutti.

Non ho mai capito come mai non si celebri invece con serenità la verità: fu ANCHE grazie all’URSS che il regime nazista fu sconfitto, esattamente come fu decisiva l’entrata nel conflitto degli USA.

Questo non toglie nulla all’analisi dell’oggi: serve semmai a ristabilire i confini della Storia, la sua inconfutabile realtà, al di là degli interessi profondi che quelle scelte avevano: espansione imperialistica, sfere d’influenza, insomma ricerca del Potere.

Non c’è nulla di nobile nel combattere una guerra, e certamente non erano disinteressati mecenati i Paesi che scesero in campo contro Hitler.

Molti anzi ignorarono l’Olocausto, pur sospettando.

Si chiusero gli occhi verso le stragi che colpirono gli innocenti, anche per mano Alleata.

Però è un fatto che quella vittoria fu ANCHE grazie a un paese che oggi riteniamo ostile: toglie qualcosa all’attualità dirlo?

Secondo me no.

Eppure, il meccanismo di rimozione sembra funzionare così.

La stessa cosa è sembrata colpire gli autori e autrici russi, in una rincorsa al rifiuto che sembrava inizialmente incontrollata.

Dico inizialmente perché in alcune sacche culturali come il mio amato Salone del Libro la cosa seppe prendere in un certo senso la giusta piega da subito. Quest’anno lo stesso Paolo Nori ha potuto parlarne liberamente, con mio sommo gaudio.

Il giusto spirito per sviluppare una specie di corazza culturale, in grado di rendere mainstream una verità inconfutabile.

La cultura russa non è Vladimir Putin o le sue scellerate scelte.

La Russia va oltre il nazionalismo esasperato, la violazione dei diritti umani, l’eversione contro il Diritto Internazionale.

Rimane un paese con una ricchezza culturale immane, che anzi dovremmo proteggere, riscoprire e coltivare: proprio per piantare un seme di pace.

Valorizzare infatti la cultura russa potrebbe essere un passo fondamentale per separare i frutti infetti di una nazione oggi aggressiva dalle sue radici solide e sane.

Comprendere la sua identità profonda, fatta di storie straordinarie ed esempi in grado di formare intere generazioni di narratori e narratrici.

Aiutarci a capire che oltre all’odio raccontato ogni giorno, c’è un substrato che può essere assimilabile alla nostra visione delle cose.

Un percorso che può ricordare -con una dinamica contraria- quello di liberazione dall’Imperialismo culturale descritto da Vogler rispetto alla tradizione americana.

Una scelta non aggressiva, ma rispettosa di sé per quel pezzo di Occidente che si è lasciato influenzare pesantemente dalle regole narrative oltreoceano.

Oggi conoscere gli USA significa anche esplorarli attraverso le storie che raccontano i loro narratori e narratrici.

Sviluppare un pensiero critico passa dal comprenderli attraverso i meccanismi narrativi che sfruttano per affermare determinati immaginari, magari privilegiando le proprie tradizioni.

Abbiamo già cominciato a fare questo percorso grazie a scelte economiche precise adottate delle piattaforme di streaming, in ricerca di un punto di contatto con chi necessita di altre strutture, altre storie, altri racconti.

Oggi guardare una serie TV sud-coreana non è solo un gesto di moda, ma anche il segnale che stiamo cercando riferimenti nuovi in termini macro-relazionali: sviluppiamo ponti che potrebbero prestare il fianco -chissà- a nuove relazioni geopolitiche.

Relazioni che nascono dai governi ma che si sostengono sull’opinione pubblica, la quale si alimenta (anche) di storie.

Conoscerle, giudicarle, comprenderle, diventa decisivo.

Andare oltre la rabbia

Un amico che lavora alle Nazioni Unite mi raccontava tempo fa di come oggi sia difficile far dialogare russi e ucraini.

Colleghi che fino a ieri lavoravano fianco a fianco e oggi anche su temi come il Cambiamento Climatico si piegano alle leggi non scritte della Guerra.

Come dar loro torto: in fondo, una parte è aggredita, e l’altra crede di aver ragione perché crede di esser sotto attacco dall’Occidente.

Alcuni probabilmente hanno parenti morti, uccisi dagli altri.

L’odio non può che generare odio.

Io però continuo a pensare che tutto questo odio lo si debba combattere.

Per salvare l’Ucraina, ma anche perché in futuro ci si possa ritrovare con la Russia.

Riportare il centro d’attenzione su quei ponti che oggi silenziosamente cerchiamo di ignorare, anche se stanno sotto i nostri occhi.

Oggi leggere Majakovskij o la Achmatova, studiare Dostoevskij o Gogol è una scelta non solo culturale, ma politica.

Celebrare questi grandi narratori e narratrici è un modo per rifiutare la politica aggressiva dell’attuale leadership russa.

Un modo per ricordarci che ci sono mondi che rimangono comunque uniti, anche oltre l’odio alimentato dal Potere.

Quel mondo siamo noi che crediamo nel potere delle storie.

L’Umanità che non si piega a un destino ineluttabile, ma che sceglie di guardare al futuro con la fiducia di chi ha scelto di guardare le brutture di scelte scellerate.

Per non dimenticare che un albero dipende dalle sue radici, e non è il frutto bacato che può crescere nel più alto dei suoi rami.

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Francesco Gavatorta
Francesco Gavatortahttps://francescogavatorta.com/
Leggo, scrivo, gioco a Football Manager, guardo il calcio e la boxe e ogni tanto li pratico entrambi. Mi piacciono le storie. Ho fondato Humanist.