Play, rewind, stop.
Era il ritmo delle mie giornate intorno ai 14 anni.
Una specie di ritrornello ripetuto sui tasti del vecchio registratore: io e mia sorella lo chiamavamo ‘radiolone’. Roba di archeologia, il registratore, e con lui anche le musicassette.
Quelle che tenevo ordinate sugli scaffali della mia cameretta, alcune originali (rarissime) e alcune registrate. Di queste ultime, poche avevano, scritto a penna o a matita, il nome del musicista o dell’album.
Due o tre le usavo per imparare i pezzi.
Mi divertivo a suonare con un gruppo di amici all’oratorio e facevamo cover, brani di gente nettamente più famosa. Per impararli il loop ‘play, rewind, stop’ era la prassi.
Dopo un po’ le cassette si smagnetizzavano, la pazienza no.
Ricordo che quando volevo imparare quella canzone andavo avanti ore.
Erano tempi duri: nessun tutorial, nessuna app. Solo orecchio, dedizione e qualche libro con accordi (spesso sbagliati).
Ah, anche una penna per copiare tutto a mano.
Lo chiamavamo “studio”.
Faccio musica da allora da circa 35 anni, senza pretese professionali, ma con la stessa fame di quando ho iniziato.
Oggi canto in un gruppo, scriviamo pezzi nostri, proviamo poco e ci muoviamo nel meraviglioso sottobosco della musica amatoriale.
Pieno di talenti nascosti, di vite che di giorno fanno tutt’altro e di sera si accendono davanti a un microfono, una chitarra, una batteria.
È un mondo vivo, ruvido, vero.
Nel mio gruppo c’è un chitarrista che non ha ancora compiuto 25 anni. Quando decidiamo di suonare una cover, lui apre YouTube, ascolta due versioni diverse, si scarica accordi e tablature dal web, poi magari interroga anche ChatGPT o un altro assistente virtuale.
In dieci minuti è praticamente pronto. Sia per fare le prove che per suonare il brano.
E suona bene, anzi, spesso suona meglio di come suonavo io dopo settimane di tentativi.
Mi affascina. Ma mi spiazza anche.
Perché imparare la musica oggi è diventato più semplice, più veloce.
Ma mi sono chiesto cosa succede quando dovessimo saltare la parte lenta, imperfetta, condivisa dello studio.
Imparare a colpi di rewind
Quando ho iniziato volevo fare il chitarrista e ricordo che studiare un brano significava fatica e pazienza. Dovevi “sgomitare” per ogni singolo accordo, ogni passaggio armonico. Non avevi tutto, e forse proprio per questo, quel poco che avevi te lo tenevi stretto.
La copia a mano, il confronto con gli altri in sala prove, le ore a cercare il giro giusto erano parte della crescita, non solo tecnica ma anche relazionale.
Era uno studio lento, imperfetto, fatto di errori e intuizioni.
Ogni canzone diventava un piccolo tesoro conquistato.
E forse, proprio perché ci voleva tempo, quelle canzoni ci rimanevano dentro anche in modo diverso.
Il Biso (soprannome del giovane chitarrista) è un talento. Fin da quando aveva 5 o 6 anni ha una predisposizione alla musica e in particolare alla chitarra. Se ne sono accorti i suoi, poi lui, e quindi l’ha assecondata e coltivata come si deve. Ha sgomitato anche lui, ben inteso, a suo modo, nei suoi tempi.
In ogni caso mi nasce una prima domanda: cos’è il talento?
E la prima risposta che provo a darmi è: un’intuizione precoce, una sensibilità innata, una facilità espressiva.
E aggiungo che è qualcosa che va scoperto, riconosciuto, e coltivato. E quest’ultima operazione è importantissima.
Anche il talento più promettente ha bisogno di disciplina, confronto, ascolto, cadute e rialzate.
E forse proprio oggi, con così tante scorciatoie disponibili, serve ancora di più ricordarsi che non basta “sapere come si fa”: serve farlo, ripeterlo, viverlo.
Il talento ai tempi dell’AI
Oggi, per chi vuole imparare, credo ci sia un mondo a disposizione. Più “a disposizione” di quando ho iniziato io.
Video, software, backing tracks, IA.
Puoi isolare la traccia di basso di un brano degli anni ‘70 con un click.
Puoi rallentare un assolo senza alterarne il pitch.
Puoi avere un assistente che ti suggerisce diteggiature alternative in tempo reale.
Il talento, se c’è, trova subito una corsia preferenziale.
E non è solo questione di tecnologia. Oggi esistono scuole di musica accessibili, con programmi didattici moderni e altamente qualificanti, anche nelle cittadine di provincia.
Quando avevo 16 anni io, non avevo la possibilità di frequentare un’accademia musicale di livello. Oggi, la stessa strada che porta al mio liceo porta anche a un corso di songwriting o a un laboratorio di ensemble, dove si sperimenta l’idea di jam session o di band.
Credo che – in parte – sia un bene: crescere con queste possibilità significa anche esplorare di più, più in fretta, più in profondità.
Alcuni giovanissimi raggiungono livelli tecnici altissimi in pochi anni, a volte in pochi mesi.
E la creatività, quando ha meno ostacoli, vola, non solo in ambito musicale.
L’altra parte
La corsia preferenziale che il talento trova oggi è in parte un bene.
Per l’altra parte mi chiedo: cosa succede se saltiamo tutta quella parte imperfetta, lenta, fatta di tentativi e inciampi?
Forse perdiamo la ruvidità della relazione, quel momento in cui ti confronti con gli altri e con i tuoi limiti. Quando non sei ancora capace e allora arrangi, pieghi la canzone alle tue possibilità, provi a farla tua, a modo tuo.
A mio avviso è lì che nasce l’interpretazione.
Forse perdiamo anche il tempo della scoperta: quello spazio mentale e fisico in cui non hai tutto subito e devi cercare, provare, sbagliare. Un tempo che ti costringeva a fermarti, ad ascoltare davvero, ad accorgerti delle sfumature.
Perdiamo l’errore come scintilla creativa. Quella nota sbagliata che ti porta altrove, quel passaggio che non ti viene e diventa una variazione, quella voce stonata che però ha un’anima. Oggi, con la possibilità di rifare tutto in digitale, si rischia di perdere l’autenticità del primo take.
Perdiamo anche il gruppo come spazio di mediazione. Un tempo si imparava insieme: ognuno portava qualcosa, si discuteva sugli accordi, si sbagliava in compagnia. Era studio ma anche socialità. Oggi il rischio è che tutto avvenga in cuffia, in solitaria.
E forse perdiamo persino il corpo: oggi la musica si guarda su uno schermo. Ma suonare è fisico. È un atto che passa dalle mani, dal respiro, dalla memoria muscolare. La lentezza aiutava a incorporare la musica, non solo a memorizzarla.
Infine, probabilmente perdiamo la soglia tra sapere e poter fare. Sapere come si suona qualcosa non significa saperla suonare davvero. La differenza sta nel tempo dedicato, nell’intenzione, nel numero di volte che hai provato a sbagliare per arrivare lì.
In cerca di un accordo
Credo che la musica non sia mai stata solo tecnica, e credo valga anche per altri ambiti nei quali si può sviluppare il talento.
C’è anche attesa, frustrazione, risoluzione. Emozione condivisa.
E allora mi chiedo: è cambiato solo il modo di apprendere e coltivare, o anche quello di condividere?
Perché forse non è solo una questione di velocità, ma di profondità.
Temo che oggi il talento venga coltivato come una pianta da serra: crescita rapida, condizioni perfette, risultati visibili in fretta.
Ma quanta resistenza ha quel talento quando esce all’aperto, sotto vento e pioggia?
Come si comporta in mezzo alle altre persone, con altri talenti che lo contaminano (leggete questo termine con l’accezione che preferite…)?
Io, nel dubbio, continuo a preferire il talento che ha visto l’inverno. Quello che ha preso acqua, ha storto i rami, ha dovuto aspettare. Perché quando arriva il palco – anche quello più piccolo o quello della tua vita quotidiana – la musica si sente.
E si sente se hai vissuto il pezzo, non solo se l’hai imparato.
E poi c’è lui, il mio giovane amico chitarrista. Tecnico, veloce, digitale. Ma anche curioso.
Forse perché io e il resto del gruppo siamo più stagionati, forse perché non sempre teniamo il tempo come si deve, ha imparato a rallentare. Ha sviluppato un talento prezioso: quello dell’armonia, non solo musicale, ma relazionale.
Quella che ti fa stare dentro l’imprecisione degli altri senza volerla correggere, che ti fa apprezzare il fascino di un accordo sporco, di un attacco sbagliato ma sincero.
E forse è questo, alla fine, che non cambia mai: la differenza tra chi suona e chi dice qualcosa.
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