Una lettura di Altruisti nati: perché cooperiamo fin da piccoli di Michael Tomasello
Credo di non dire nulla di strano ammettendo che ci sono alcune cose che da adulti smettiamo di fare.
Forse perché ci sembrano infantili. Forse perché inutili oppure inefficienti.
Vi condivido tre esempi: raccontare storie, fare domande e giocare.
Sono tre azioni quotidiane che cominciamo a fare quasi da subito, dai due anni possiamo già raccontare storie complesse ai nostri pupazzi, fare ipotesi fantasiose con la famosa frase ‘facciamo che io ero’.
Superati i “terrible two” o sul margine dei quattro anni, cominciamo con le domande. I mille ‘perché’ consequanziali oppure gli interrogativi che non vogliono risposte ma compagnia.
E quasi dimenticavo, ancora prima, insieme alle storie, inventiamo giochi che non servono a nulla.
Poi cresciamo, e quei gesti diventano secondari.
Accessori.
Frivoli.
Oppure li recuperiamo riempiendoli di significato adulto, togliendo spazio al bambino e ai suoi spunti presiozi.
Quando è stata l’ultima volta che un adulto ci ha raccontato una storia senza obiettivi particolari? Senza dover vendere qualcosa, spiegare un concetto, difendere una posizione?
E quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto una domanda senza già sapere la risposta, o senza avere un piano?
Quando abbiamo giocato per il solo gusto di farlo?
Quando eravamo bambini
I bambini vivono immersi in una narrazione continua. La realtà per loro è una storia in divenire, fatta di personaggi, imprevisti, trame che si intrecciano. Come scrive Bruno Bettelheim ne Il mondo incantato, le fiabe non servono solo a intrattenere, ma aiutano i bambini a dare senso al caos della vita.
Sono strumenti per costruire identità, esplorare emozioni, immaginare alternative.
E poi ci sono le domande.
Quelle curiose, scomode, insistenti, che mettono in crisi la logica adulta: “Perché il cielo è blu?”, “Perché la gente si arrabbia?”
Domande che non cercano risposte, ma relazione.
Di recente ho pensato al fatto che quando facciamo domande, da adulti, iniziamo la frase con: “Scusa, vorrei chiederti se…”.
Ci scusiamo, quasi fosse una colpa.
Infine, il gioco. A mio avviso, uno dei più potenti strumenti inventati dall’essere umano.
Perché nel gioco si simula, si esplora, si sbaglia senza conseguenze.
Il gioco è cooperazione, è regola condivisa, è negoziazione continua. È un terreno neutro dove si può essere altro da sé senza paura.
Nel gioco si muore e si torna in vita.
Se non si muore, si perde e, nonostante questo, hai sempre un’altra mano, un altro turno per poter ricominciare da capo.
L’altruismo dimenticato
Ho letto di recente Altruisti nati, lo psicologo evolutivo Michael Tomasello e ho scoperto un’altra cosa che facciamo fin da bambini (e, spesso, dimentichiamo crescendo).
Una scoperta tanto semplice quanto radicale: i bambini piccoli sono naturalmente portati ad aiutare gli altri.
Nei vari capitoli troviamo prove scientifiche che dimostrano come non lo facciano per ricompensa o perché gli venga insegnato, ma perché sono biologicamente predisposti a farlo.
Secondo Tomasello, l’altruismo umano nasce da un processo evolutivo che ci distingue dalle altre specie: la cooperazione intenzionale.
I bambini, fin dai primi anni di vita, mostrano una straordinaria capacità di comprendere gli scopi degli altri e di agire per aiutarli a raggiungerli. Indicazioni spontanee, azioni di supporto, gesti di condivisione: tutto questo emerge ben prima dell’età scolare.
Oggi ci troviamo in un’epoca che valorizza l’individuo sopra ogni altra cosa.
Siamo costantemente incoraggiati a distinguerci, a emergere, a ottimizzare ogni minuto. La cultura del “self-made” ha sostituito quella del “co-made” o co-creato, e la retorica della produttività ci accompagna anche nei momenti di pausa.
I canali digitali, sempre più ci spingono a costruire una narrazione individuale, spesso autoreferenziale, dove ogni relazione è una potenziale audience e ogni emozione può diventare contenuto.
La precarietà diffusa, l’iperconnessione e la competizione latente in ogni ambito — dal lavoro alle relazioni — ci fanno credere che per farcela dobbiamo bastare a noi stessi. Ma questa autosufficienza è spesso una solitudine travestita.
E in questa solitudine, è facile dimenticare che siamo animali sociali, che l’altruismo non è una concessione ma una possibilità.
Un tema in cui credo moltissimo e che avevo già trattato in questo articolo
Quando smettiamo di essere altruisti?
Nelle pagine di Tomasello non ho trovato considerazione esplicite, ma trattandosi solo di esperienze con bambini in età prescolare, la domanda mi viene spontanea: quando abbiamo iniziato a dimenticare la nostra inclinazione all’altruismo?
Forse accade proprio quando iniziamo a pensare solo come individui. Quando ci sentiamo definiti più da ciò che possediamo che da ciò che condividiamo. Quando “essere adulti” diventa sinonimo di “essere autosufficienti”.
La cultura dell’individualismo spinto, che domina molta parte del nostro tempo, sembra aver trasformato la cooperazione in una debolezza e l’empatia in una perdita di tempo.
In un contesto in cui ogni azione deve produrre un risultato, dove ogni legame rischia di diventare una strategia e ogni racconto un contenuto, è facile dimenticare che siamo, prima di tutto, esseri in relazione.
Byung-Chul Han, nel suo saggio La società della stanchezza, descrive bene questo scenario: viviamo in un’epoca in cui la libertà è diventata autocostrizione, e la performance ha sostituito il legame.
Un’epoca in cui anche l’altruismo rischia di diventare una KPI, forse quello che ci siamo dimenticati non è perduto.
Sta solo aspettando il momento giusto per farsi riscoprire.
Come un gioco lasciato a metà, o una storia mai finita.