Non scompariranno finchè saremo in vita

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Che cosa possiamo fare con il dolore?
Possiamo attraversarlo. Subirlo. Perpetuarlo, a volte.

Possiamo voltargli le spalle, fingere che non ci tocchi.
Oppure possiamo fermarci. Ascoltarlo. Prendercene cura.

Me lo sono chiesto il 12 aprile, entrando alla Casa della Memoria di Milano per la commemorazione del genocidio dei Tutsi in Ruanda. L’anniversario ufficiale è il 7 aprile, giorno in cui – trentuno anni fa – ebbe inizio uno dei massacri più rapidi e spietati del Novecento. Ma la memoria, come il dolore, non ha una data fissa. Vive nei gesti, nei silenzi, nella condivisione.

Io ero lì per presentare l’evento. Con me c’era mio fratello Shyaka, ruandese di origine. Lui per ricordare, io per accompagnare.
O forse eravamo entrambi lì per lo stesso motivo: prenderci cura di una storia che non è solo sua, né solo mia. Ma nostra, nel momento in cui scegliamo di ascoltarla. Di farle spazio. Di custodirla.

Siamo arrivati per primi e la sala si è riempita nel giro di pochi minuti. Persone arrivate da ogni parte d’Italia che si sono scambiati saluti, sorrisi, abbracci. Il clima è stato subito quello di festa.
La commemorazione è stata organizzata da Ibuka Italia, l’associazione che da anni sostiene la comunità ruandese e promuove il ricordo delle vittime del genocidio. A curare ogni dettaglio dell’incontro è stata Honorine Muyambere, presidente dell’associazione.
La sua presenza, insieme a quella di Alain Pacifique Ndaishimye, presidente della diaspora ruandese in Italia, ha segnato il tono dell’intera giornata: una memoria che non si chiude nel dolore, ma si apre al futuro. Che chiede rispetto, non pietà e trova forza nella collettività.

Nomi: le identità della memoria

Il cuore della commemorazione è stato il momento dedicato alle famiglie scomparse. Non solo numeri, ma volti. Storie. Legami spezzati. Chi voleva, poteva alzarsi in piedi e pronunciare i nomi dei propri cari uccisi.
E mentre quei nomi risuonavano nella sala, uno dopo l’altro, la memoria diventava viva.

Un modo per dire: “sono esistiti, e continueranno a esistere finché li ricorderemo.”

Tra le voci che si sono alzate, c’era anche quella di Stefan, nato nel 2005. Troppo giovane per aver vissuto direttamente il genocidio, ma non troppo per sentirne il peso. I suoi nonni furono uccisi nei primi massacri del 1973, quando la violenza stava ancora preparando il terreno.
Stefan ha parlato con calma e lucidità. Ha raccontato ciò che i suoi genitori gli hanno trasmesso. Non come un’eredità amara, ma come un compito necessario. Ha detto che la memoria è responsabilità di chi viene dopo. Che il ricordo non serve a rimanere fermi, ma a far crescere qualcosa di nuovo.

Poi, insieme ad altri giovani ruandesi che oggi vivono e studiano in Italia, ha cantato.
“Non scompariranno finché noi saremo in vita.”
Era una promessa. Un canto. Un giuramento collettivo.

La memoria come cura

Alla Casa della Memoria – luogo simbolico della città di Milano, che conserva e racconta le storie di chi ha lottato contro il nazifascismo, delle vittime del terrorismo e delle stragi del secondo ‘900 – ho visto succedere qualcosa di raro.
La memoria non era commemorazione distaccata. Era relazione viva. Un gesto corale aperto alla cura.

Chi resta, ricorda. Ma chi ricorda davvero, costruisce.
Le storie, quando vengono raccolte e portate nel futuro, diventano semi.
E finché ci sarà qualcuno disposto a cantarle, a nominarle, a viverle, nessuno sarà davvero scomparso.

Ma c’è qualcosa in più, e forse ancora più essenziale: io credo che possiamo prenderci cura anche delle storie che non ci appartengono. Possiamo farlo nell’ascolto – sincero, attento, nella restituzione rispettosa e delicata.

Prendersi cura significa fare spazio, diventa custodire e trasmettere. Non è necessario aggiungere altro, solo voler raccogliere e trasferire ciò che già c’è nelle storie di queste donne, uomini, ragazze e ragazzi.
È un gesto piccolo, ma che può avere un’eco lunga. È dire: “questa storia non finirà qui, perché io la porto con me.”

E allora la memoria smette di essere solo ricordo.
Diventa presenza, custodia, futuro.

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Massimo Benedetti
Massimo Benedetti
Dicono che so mettere a proprio agio le persone. Ascolto e leggo molto, scrivo e sono innamorato. Humanist è il mio spazio preferito.