Alle scuole medie, mentre il mondo intero sembrava leggere Pippi Calzelunghe, la mia classe – un manipolo di undici maschi in una piccola città di provincia – conobbe solo Emil di Lönneberga. Forse una scelta consapevole della nostra insegnante di italiano, forse un atto di ribellione letteraria.
Sta di fatto che, per noi, Pippi era solo una serie TV un po’ folle passata in TV il sabato mattina. Il libro, mai letto.
Emil invece lo abbiamo amato, e forse senza saperlo ci ha cambiati. È stato il nostro primo contatto con il valore dell’infanzia secondo Astrid Lindgren.
Astrid Lindgren, l’autrice di entrambi i personaggi, ha una biografia che sembra uscita da uno dei suoi romanzi: incinta a 19 anni di un uomo sposato, lasciò la campagna per la città, affrontò lo scandalo, la lontananza dal figlio e poi una lenta, tenace ricostruzione di un equilibrio. Ha fatto della propria infanzia, dei suoi dolori e delle sue lotte civili (fu pioniera dei diritti dei bambini, delle donne e anche degli animali), la materia prima per una scrittura potente e viva.
Emil e Pippi sono due figli diversi dello stesso spirito creativo. Emil, immerso nella campagna svedese, combina guai a ripetizione, ma lo fa sempre con un cuore grande e un’innocenza disarmante. Pippi, fuori da ogni schema, vive senza genitori, solleva cavalli e sfida il mondo adulto con una forza surreale.
Due versioni dello stesso archetipo: l’Innocente.
Per capire meglio, conviene fare un passo indietro. Gli archetipi, nella psicologia analitica di Jung e nella cultura narrativa, sono modelli universali che abitano l’immaginario collettivo. Rappresentano funzioni psichiche, ruoli ricorrenti, energie interiori. L’Innocente è uno di questi: spesso confuso con l’ingenuo, il credulone, il naïf. Ma in realtà è colui (o colei) che crede nella bontà del mondo, che ha fiducia, che desidera profondamente una vita giusta, buona, libera.
Non è un sognatore distratto, è un combattente gentile.
L’Innocente si batte perché la meraviglia non sia perduta, perché la bellezza resti accessibile, perché il gioco sia ancora una forma di verità.
Non dice “si stava meglio da piccoli”, ma piuttosto: ci sono cose che da piccoli sapevamo e da grandi dobbiamo imparare a ricordare.
Emil, nel suo capanno punito dopo l’ennesima marachella, intaglia figure di legno per far passare il tempo ed è come se ci dicesse che l’errore può diventare bellezza. Pippi, con le sue scarpe giganti e la sua logica spiazzante, ci mostra che si può stare al mondo con forza senza rinunciare alla dolcezza.
Ed è forse proprio questo il vero valore dell’infanzia secondo Astrid Lindgren: una grammatica esistenziale da ricordare e rimettere in circolo che va oltre il rimpianto e la nostalgia dei ricordi.
A proposito: quest’anno Pippi compie 80 anni. Noi Undici no, non ancora.
Lei invecchia splendidamente, noi (e vale per tutti non solo per i ‘miei’ undici) possiamo almeno provare a sentirci più bambini qualche volta…
Rivedo quegli undici compagni come un piccolo clan iniziatico. Nessuno lo sapeva, ma stavamo imparando che combinare guai e poi cercare un modo per sistemare le cose è forse la sintesi perfetta della vita adulta.
Emil ci parlava con dolcezza di responsabilità, libertà e conseguenze. Con ironia, ma anche con rispetto.
Oggi, da adulti, possiamo scegliere: o lasciamo che l’infanzia resti un’eco nostalgica, o le riconosciamo dignità, come una forza trasformativa. L’archetipo dell’Innocente ci chiede di credere, ma con forza.
Credere che gentilezza, sogno, gioco, meraviglia siano strumenti da adulti, non scarti da bambini.
Forse la nostra insegnante ci ha regalato questo senza nemmeno dircelo. E noi non dobbiamo smettere di intagliare qualcosa di meraviglioso dai nostri errori.
Riferimenti
- Vanity Fair: Chi è Astrid Lindgren e perché l’autrice di Pippi Calzelunghe è importante per i diritti dei bambini (e delle donne)
- Hot Corn: Becoming Astrid | Pippi Calzelunghe, quel biopic e la vera storia di Astrid Lindgren
- picture by Anastasia Vityukova in Unsplash