“Hey, c’è qualcuno in casa?”
Esco da camera mia, al secondo piano, e mi sporgo a guardare dalla cima delle scale. Appena più in basso vedo mia nonna che sorride.
“Ciao nonna!”
“Ciao, hai visto in giro le chiavi della Panda?”
La nonna Assunta ha preso la patente a cinquant’anni e, dopo una serie di auto usate, si era comprata la nuova fiammante panda 750. L’acquisto era avvenuto nel 1992, l’aveva cambiata poi nel 2000 per una Kia Picanto. Siamo nel 2003 e mia nonna, col suo sorriso beato, al fondo della scala di legno di casa, mi chiede le chiavi della panda.
Di quella panda.
Le serve per andare a recuperare alla stazione lo zio Faustino, che torna da lavoro. Lo zio Faustino è morto da parecchi anni e, a detta dei miei genitori, ha sempre lavorato in campagna. Aveva forse preso il treno una volta in tutta la sua vita.
Mi imbatto così, in prima persona nel morbo di Alzheimer. La nonna Assunta se ne è andata l’anno scorso e non è morta di Alzheimer, perché di Alzheimer non si muore.
Si muore perché questa forma di demenza è una malattia progressiva che colpisce il cervello e provoca un deterioramento delle funzioni cognitive, della memoria, del linguaggio e della capacità di svolgere attività quotidiane. Di conseguenza, quando subentrano altre problematiche fisiologiche, il corpo non riesce a arginarle. In pratica crollano le possibilità di difenderti anche solo dalle più piccole infezioni.
Vent’anni di nebbia
Il decorso della malattia è stato lento e tutto sommato stabile. Non ci sono state gravi complicazioni fisiche.
Mia nonna è stata pian piano avvolta da una nebbia. Vent’anni di nebbia sempre più fitta. Anche se lei con la nebbia aveva confidenza, in campagna, in città, a piedi, in bicicletta, sulla sua Panda, vent’anni sono un lungo viaggio: un lento smarrimento dei ricordi, delle capacità e, infine, della propria identità.
Le cause dell’Alzheimer sono molteplici e complesse. Alla base ci sono processi biologici, leggendo in rete si tratta di “accumulo anomalo di proteine beta-amiloidi e tau nel cervello, che portano alla formazione di placche e grovigli neurofibrillari”. In pratica questi accumuli danneggiano sinapsi e cellule nervose, causando un progressivo declino delle funzioni cognitive.
Oltre ai fattori biologici, giocano un ruolo significativo fattori genetici, ambientali e legati allo stile di vita.
Il tema “stile di vita” mi ha colpito particolarmente, perché si estende oltre le tradizionali raccomandazioni su alimentazione e attività fisica, abbracciando aspetti fondamentali come le relazioni sociali e il contesto familiare: le relazioni sociali e la qualità della vita emotiva è altrettanto cruciale per la prevenzione e la gestione dell’Alzheimer. Uno studio del 2017 pubblicato su The Lancet Neurology ha identificato acuni fattori di rischio potenzialmente modificabili per la demenza, tra i quali: il livello di istruzione, la pressione alta, l’obesità, l’inattività fisica e l’isolamento sociale.
Punti di riferimento
Un giorno, mentre cercavo risorse sull’Alzheimer, mi sono imbattuto nel progetto artistico “My grandma is fading”.
Un’idea semplice ma molto forte: l’autore, Luca Vallese, ha fotocopiato una istantanea di sua nonna una prima volta per poi fotocopiare le copie successive. Ottenendo così fotocopie di fotocopie e realizzando un progressivo sbiadimento dell’immagine originale.
In alcune interviste, l’autore, ha raccontato di come l’opera fosse un mezzo per dire alla nonna che le voleva bene, nonostante la malattia. Non era una storia di dolore o lutto, ma un gesto d’amore che attraversava quella nebbia.
La stessa di mia nonna.
Questo mi ha colpito profondamente, perché mi ha fatto riflettere su come mia nonna, nonostante tutto, trovasse ancora conforto nei suoi punti di riferimento affettivi.
Mio padre, ad esempio, le cantava canzoni popolari, che nonna amava cantare e ballare in gioventù. Nei primi tempi si univa a lui, poi, con il passare dei giorni, le parole si sono fatte più rare, fino a rimanere solo un sorriso. Un sorriso sereno, la nonna non riconosceva più i volti e le persone, ma sembrava riconoscere una presenza famigliare.
E qui sta un nodo fondamentale: i malati di Alzheimer possono perdere la memoria, ma non perdono il bisogno di sentirsi amati e al sicuro. Anche se non ricordano chi siamo, percepiscono il legame che li unisce a noi.
L’Alzheimer non è solo una malattia biologica, ma una condizione che viene profondamente influenzata da fattori sociali. La solitudine e l’isolamento sociale non sono semplicemente problemi emotivi; numerosi studi dimostrano che possono influire sul rischio di sviluppare demenze, compreso l’Alzheimer.
Secondo una ricerca pubblicata su The Lancet Public Health nel 2020, l’isolamento sociale è associato a un aumento del 40% del rischio di sviluppare demenze. Lo studio evidenzia come la mancanza di interazioni sociali stimolanti possa accelerare il declino cognitivo, poiché il cervello è meno stimolato a mantenere connessioni attive. Questo porta a una maggiore vulnerabilità ai cambiamenti neurodegenerativi.
Allo stesso modo, un rapporto dell’Alzheimer’s Association del 2022 sottolinea che gli anziani che vivono in solitudine hanno un rischio doppio di sviluppare la malattia rispetto a quelli che vivono in un ambiente socialmente attivo. In particolare, la solitudine prolungata sembra ridurre la plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di adattarsi e creare nuove connessioni, un fattore cruciale per rallentare il decorso delle malattie neurodegenerative.
Relazioni di qualità: cioè?
A Vercelli, città dove abito, l’autunno non è autunno senza la nebbia. Noi autoctoni sappiamo muoverci con destrezza anche senza i famosi fari fendinebbia. Certo, se hai un buon sistema di illuminazione la questione è più semplice ma ricordo alcuni viaggi sulla Panda della nonna, soprattutto in campagna, durante i quali avveniva una sorta di magia.
Guidava con una tale sicurezza in mezzo alla nebbia che sembrava che la strada si disegnasse sotto le ruote.
“Anche se non vedi tutto, basta qualche riferimento e vai avanti…”
Con ‘qualche riferimento’, mi immagino dei punti fermi che ci permettono di avanzare anche quando la vita si fa incerta.
Ma cosa fa davvero la qualità di un legame?
Un rapporto solido si costruisce prima di tutto sulla presenza vera. Un minuto di attenzione sincera vale più di ore distratte. Le esperienze vissute con intensità di presenza creano ricordi che restano, anche quando la memoria vacilla.
Mi piacciono molto i concetti di vulnerabilità e fiducia, presi insieme: la possibilità di essere sé stessi senza paura di essere giudicati. Sapere che possiamo mostrare le nostre fragilità, dire la verità anche quando è scomoda, perché dall’altra parte c’è chi accoglie senza condizioni.
Trovo interessanti anche le idee di reciprocità e crescita quando ci si aiuta a migliorare, si celebrano i successi altrui senza competizione, si cammina fianco a fianco invece di tirarsi indietro o correre avanti.
Tra le caratteristiche che ritengo fondamentali per una relazione di qualità, tendo a valorizzare più di tutte la comunicazione profonda. La qualità della relazione, a mio avviso, dipende molto da quel modo di relazionarsi che fonde parole, gesti, silenzi condivisi. Quella stessa comunicazione che ci permette di affrontare i conflitti senza paura di perdere il legame.
Credo che dentro la comunicazione profonda si trovino significato e senso di appartenenza. Una relazione di valore è un luogo sicuro, un legame che resiste al tempo, alla distanza, persino alla dimenticanza. È sapere che, anche quando tutto si fa confuso, c’è una presenza che ci riconosce, anche solo con un sorriso.
Dentro la nebbia
Credo che la nebbia nella vita sia inevitabile.
Avremo momenti di smarrimento, di confusione, di strade che sembrano svanire sotto i nostri passi. Ma le relazioni di qualità sono le luci che la attraversano, i fari che non si spengono, le mani che troviamo anche quando tutto il resto si dissolve.
E questo non è un caso: siamo animali sociali, intrecciati gli uni agli altri in modi che spesso nemmeno comprendiamo del tutto. Il fatto che i legami autentici resistano anche quando la consapevolezza vacilla, quando la memoria si sgretola, racconta molto su chi siamo davvero. Possiamo dimenticare volti, nomi, luoghi, ma il senso di appartenenza resta.
Il bisogno di sentirsi parte di qualcosa più grande di noi sopravvive alla nebbia, come se fosse inciso in profondità, oltre il linguaggio, oltre i pensieri coscienti. Dobbiamo però ricordare che le relazioni di qualità non nascono per caso, e soprattutto, non si mantengono da sole. Costruirle e coltivarle richiede impegno. Costa fatica esserci davvero, senza filtri, senza distrazioni. Costa fatica ascoltare, comprendere, dare spazio all’altro senza la pretesa di avere sempre ragione. E costa fatica scegliere i punti di riferimento, quelli che restano, quelli che ci fanno strada anche nella nebbia più fitta.
Forse è per questo che non tutti i legami durano. Alcuni si sfaldano alla prima folata di vento, altri si dissolvono nel tempo. Poi ci sono quelli che rimangono, quelli che, anche quando non si vedono, possono orientarci lo stesso.
E sono questi che fanno la differenza. Sempre.
Riferimenti 😉
- Il programma Dementia Friends, promosso dall’Alzheimer’s Society nel Regno Unito, coinvolge la comunità per creare ambienti più accoglienti per le persone affette da demenza.
- In Italia, il progetto Caffè Alzheimer, attivo in molte città, offre spazi di incontro per i malati e i loro familiari, combinando supporto emotivo, stimolazione cognitiva e socializzazione. Qui il link al manuale operativo per chi volesse attivarne uno nella sua città.