“Erano come ghiaccio e fuoco: un paradosso a due corni. Fuori dal palco, uno era silenzioso, riflessivo, autocritico fino all’eccesso, ossessionato dalla pratica. L’altro era sicuro di sé, esigente; preferiva uscire con gli amici piuttosto che fare le scale. Ma sul palco e in sala d’incisione invertivano i ruoli. John Coltrane, col sax in mano, diventava l’irrefrenabile: prolisso, loquace. Quando Miles Davis alzava la tromba, incarnava l’introverso sensibile, suonava brevi note ovattate, emanando vulnerabilità.”
(tratto da Miles Davis e John Coltrane: Yin e Yang di Ashley Kahn – lunedì 2 gennaio 2023)
La storia dell’arte non si esaurisce sui soffitti Vaticani o nelle sale del British Museum.
No no.
A volte prende forma tra le vibrazioni di un sassofono, o nell’improvvisazione febbrile di un trombettista geniale che, con il silenzio tra le note, scolpisce il tempo come il marmo. Parliamo di jazz, certo. Ma non solo. Parliamo di mito, di archetipo, di un’umanità che si fa suono. Parliamo di quel momento, tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, in cui la musica si fa monumento. In cui un disco potrebbe non essere più solo un’esperienza di ascolto, ma un affresco, un’architettura sonora, un’apocalisse stilistica.
L’incontro
Protagonista di questa rivelazione, enorme ma al contempo sotterranea, è il rapporto contrastante ma profondamente creativo tra Miles Davis e John Coltrane. È questo un punto di vista che ce li restituisce come due forze complementari: l’uno conciso ed enigmatico, l’altro spirituale e ossessivo nella ricerca sonora. Il loro incontro non è stato un vero e proprio sodalizio: nel 1955 Miles Davis è alla ricerca di un nuovo sassofonista per rimpiazzare Sonny Rollins, alle prese con uno dei suoi periodici ritiri dalle scene.
È il batterista Philly Joe Jones a suggerirgli di provare John Coltrane. Nonostante le iniziali riserve, Davis è molto colpito dal suo modo di improvvisare. Coltrane non si lascia scappare l’occasione per crescere musicalmente, ma si scontra con lo stile riservato di Davis, che da pochi suggerimenti e comunica in modo criptico. Le differenze di metodo e carattere lo portano a decidere di lasciare il gruppo, ma Davis, dovendo onorare impegni professionali già presi, praticamente lo prega di tornare. Attraverso queste bizzarre dinamiche sul finire degli anni ’50 il Miles Davis Quintet ha già rivoluzionato il jazz moderno con dischi come Milestones e Kind of Blue, che costituiscono l’esempio perfetto della loro alchimia.
Davis imposta l’ambiente modale spingendo alla sintesi Coltrane, che lo abita e lo espande con la sua intensità, costringendo lo stesso Davis a confrontarsi con profondità espressive esterne al suo campo visivo. Dopo una brusca quanto leggendaria separazione artistica, i due torneranno brevemente a collaborare, prima che Coltrane intraprenda la sua svolta spirituale con la realizzazione di A Love Supreme. E proprio a 60 anni da questa sua pubblicazione, l’occasione mi sembra opportuna per celebrare la loro tensione creativa come un motore dell’innovazione, una danza tra ordine e estasi, precisione e libertà.
Gli archetipi jazz di Apollo e Dioniso
In generale credo che nella storia della musica contemporanea si possa tratteggiare un’analogia piuttosto suggestiva tra alcune figure musicali fondamentali e gli archetipi dionisiaco e apollineo, così come li ha definiti Nietzsche ne La nascita della tragedia.
Apollineo come rappresentazione dell’ordine, della misura e della forma, della chiarezza e dell’individualità. È l’arte dell’equilibrio, della lucidità razionale e della bellezza idealizzata. Miles Davis è spesso associato a un’estetica con un raffinato senso della sintesi e dell’economia. Il suo stile è improntato a una lucidità strutturale e una chiarezza quasi architettonica.
È l’archetipo del musicista che scolpisce il silenzio e intellettualizza l’improvvisazione, alla ricerca di nuove forme senza mai perdere il senso della misura, con particolare attenzione per la distanza emotiva e il controllo, anche nei momenti di massimo sperimentalismo (Bitches Brew incluso). Davis rappresenta forma, visione e costruzione, come Apollo.
Dionisiaco come impulso caotico, estasi, istinto viscerale e primordiale. È l’arte dell’ebbrezza, della fusione collettiva, della trascendenza dell’io. John Coltrane è la manifestazione della trance musicale come trasporto spirituale, dell’improvvisazione come rito mistico.
Nelle sue fasi più mature (A Love Supreme, Ascension, Interstellar Space), la sua musica diventa una vera e propria invocazione, una ricerca di comunione col divino.
È travolgente nel suo essere intensamente emotivo: non suona “per” l’ascoltatore, ma attraverso se stesso. Il suo sax è la voce del fuoco sacro, il suono che dissolve i confini della personalità del musicista. Coltrane rappresenta l’ebbrezza, la dissoluzione e il superamento dei limiti, come Dioniso.
Buonarroti e Caravaggio
Naturalmente, sia Davis che Coltrane hanno avuto momenti apollinei e dionisiaci nelle loro carriere, ma nel loro ethos artistico dominante, questa analogia risulta forte e chiara. Analizzare “Bitches Brew” di Miles Davis e “A Love Supreme” di John Coltrane alla luce di questi archetipi e del loro rapporto reciproco, rivela un dialogo profondo tra forma e caos, mente e spirito, visione e trascendenza. Potremmo spingerci oltre? E se volessimo azzardare un accostamento più obliquo e interdisciplinare tra forme di espressione come musica e pittura?
Potremmo provare ad affermare che le due figure-cardine del jazz richiamano altrettanti giganti dell’arte rinascimentale e barocca: Miles Davis potrebbe essere accostato a Michelangelo Buonarroti, per la sua visione architettonica e monumentale della forma; mentre John Coltrane, con la sua intensità spirituale e drammatica, ci rimanda a Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, maestro del chiaroscuro e della trascendenza terrena. Andiamo a vedere cosa succede se proviamo a considerare i dischi Bitches Brew e A Love Supreme come opere totali, simili per portata simbolica e artistica, rispettivamente alla Cappella Sistina e alla Cena in Emmaus.
Bitches Brew (1970)
Rappresenta un punto di rottura per Miles Davis: il trombettista è tediato dall’obsolescenza dei puristi e spinto da una tendenza all’innovazione che lo vedrà indossare i panni del pioniere in ogni fase della sua carriera. Qui prende un linguaggio che per lui non ha più segreti – il jazz – e lo rivolta, lo stratifica, lo sovraccarica di energia.
Ma attenzione: non è disordine. È controllo del caos. È il caos come progetto. E per realizzarlo convoca un’orchestra elettrica, collettiva, tribale, in cui oggi si fanno notare nomi che saranno riconosciuti nei decenni successivi come veri e propri giganti della musica – Chick Corea, John McLaughlin, Dave Holland, Billy Cobham sono solo una piccola parte dello sterminato ensemble che partecipa alle registrazioni. Un’orgia di suoni? Forse. Ma guidata da un’intelligenza compositiva feroce, dove ogni cosa – anche il disordine – ha una logica. Nonostante l’apparente libertà, l’album è costruito su strutture ben precise, disegnate da Davis e poi improvvisate dal gruppo.
C’è un piano preciso dietro il magma sonoro, un piano chiaro solo allo stesso Davis, che rinuncia al ruolo di solista predominante, preferendogli la guida come un regista. Usa il montaggio in studio come strumento di scultura sonora, aspetto estremamente innovativo in ambito jazz. Mentre la musica è travolgente, lui mantiene il suo stile freddo, enigmatico, silenzioso, quasi ascetico. Tuttavia il risultato è un’esplosione di ritmi tribali, bordoni, loop ipnotici e suoni che sembrano emergere da un rito primitivo. L’ensemble si muove come in uno stato di possessione. La musica non è logica, è organica, rituale, a tratti sciamanica.
Affresco sonoro
Davis, apollineo di fondo, accoglie Dioniso come forza creativa, ma senza abbandonarvisi mai del tutto. È l’architetto del disordine. Come gli affreschi della Cappella Sistina sono un’opera totale, enciclopedica, stratificata, con figure potenti, gesti intensi e spazi che si espandono oltre lo spazio, anche la musica di Bitches Brew è una costruzione monumentale, complessa, corale. È un affresco sonoro in cui convivono jazz, rock, tribalismo, elettronica.
Michelangelo gestisce l’enorme energia delle forme, tenendole sotto una griglia prospettica divina. Davis fa lo stesso con l’improvvisazione collettiva: sembra un flusso libero, ma è modellato come un bassorilievo sonoro, con tagli, montaggi e struttura. Davis guarda al jazz come mezzo di mutazione, come costruzione di un linguaggio futuro.
Michelangelo guarda al corpo umano come forma ideale, trascendente: anche se egocentrico, non firma la Sistina, è al servizio di un’idea superiore. Davis si mette in disparte, suona poco, ma dirige ogni aspetto di Bitches Brew come un demiurgo-architetto, facendone un’opera visionaria destinata a cambiare il linguaggio del jazz – ma non solo – per sempre. Buonarroti scandalizza osando inserire il nudo, tanto il maschile quanto il femminile, nel linguaggio sacro, come Davis osa contaminare il suono finora puro del jazz con le tecniche di produzione, l’effettistica e la strumentazione tipici del rock.
A Love Supreme (1965)
In questo brano Coltrane invece fa quello che Caravaggio fa nella sua Cena in Emmaus: rende sacro l’umano. Non c’è grandiosità teatrale, non ci sono volte affrescate. Ci sono mani tremanti, pane spezzato, occhi che si aprono alla rivelazione. Il dipinto di Caravaggio è profondamente spirituale, ma terrestre, immerso nella carne e nella luce. Nel rappresentare l’episodio evagenlico non idealizza il divino, rende sacro il quotidiano.
La musica di A Love Supreme è si una preghiera fatta di musica, ma è umana, tremante, viva. Dove il Caravaggio usa il chiaroscuro per mostrare il sacro che emerge dal buio, Coltrane usa il suono come luce, emerge da un silenzio profondo, si innalza ma non cancella l’ombra: la attraversa. I personaggi rappresentati da Caravaggio sono gente comune, eppure si manifesta loro il divino nello stesso modo in cui Coltrane non cerca effetti o virtuosismi: vuole comunicare l’Amore divino attraverso il linguaggio del sassofono.
Dove il dipinto colpisce con il pathos trasmesso dalle figure, dai volti, il disco colpisce con l’intensità espressiva: il suo sax sembra piangere, supplicare, ringraziare in una dimensione intima, spirituale, terrena e sacra al tempo stesso. Un incontro col divino nella materia sonora. È il capolavoro spirituale di Coltrane: un’offerta sacra, una preghiera sonora articolata in quattro movimenti chiamati Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm.
L’intero lavoro è una trance mistica. Coltrane suona come se stesse trascendendo se stesso. Perché questo sia possibile, può contare sull’affiatamento dei pochi musicisti che lo accompagnano – Jimmy Garrison al contrabbasso, Elvin Jones alla batteria e McCoy Tyner al pianoforte, che conoscono per la prima volta la musica che dovranno suonare direttamente alla sessione di registrazione, tramite i pochi, disordinati appunti del musicista. Per lui non c’è più distanza emotiva, il sax diventa un’estensione dell’anima, un flusso continuo di energia e devozione.
Liturgia Jazz
La musica tende a dissolvere i confini individuali, diventando un rituale dionisiaco di comunione con l’universo. Ma a differenza dei suoi lavori più tardi (es. Ascension), A Love Supreme è ordinato, quasi liturgico. Ogni movimento ha una chiara funzione simbolica. Il tema è chiaro, reiterato, come un mantra. Il “Love Supreme” viene cantato e suonato come una litania sacra. Coltrane prende un tema semplice, e lo ripete, lo varia, lo sussurra, lo prega. Il suo sassofono non suona: invoca. Il divino non scende tra le nuvole. Si rivela nel fiato, nel corpo che vibra. Siamo in ascolto di una costruzione razionale del viaggio spirituale, una scaletta mistica, ma guidata con consapevolezza.
Coltrane, dionisiaco di fondo, usa la forma come trampolino per l’estasi. In lui, Apollo è servo di Dioniso, non il contrario.
L’incontro impossibile
Abbiamo fatto un confronto che rende possibile, con qualche abbondante grado di approssimazione, un incontro altrimenti impossibile tra due visioni opposte ma complementari: quella di Buonarroti e Merisi.
Il primo un visionario strutturatore, l’altro un anima in lotta, guidata dalla luce interiore. Si sarebbero detti poco, forse. Ma si sarebbero capiti nell’arte, nel gesto che trasforma il reale. Davis e Coltrane, invece, hanno potuto condividere il tempo e il palco se pur con approcci profondamente diversi alla musica.
Dove il primo cercava lo spazio, l’assenza, la tensione fredda, il secondo cercava l’oltre, il pieno, la tensione interiore. In A Love Supreme, Coltrane guarda (forse per l’ultima volta) a una forma più controllata, ma solo per superarla attraverso la fede. In Bitches Brew, Davis ha assorbito l’intensità collettiva del free jazz di Coltrane, ma la ordina, la incanala.
Attraverso l’esplorazione di altri ambiti è evidente come la loro divergenza vi si rifletta: il modo in cui suonavano live, le scelte esistenziali, o l’impatto che hanno avuto sulle generazioni successive.
Live: dal vivo
Sul palco, l’apollineo Davis spesso suona voltando le spalle al pubblico. Non cerca il consenso, né l’empatia diretta. Pochi suoni, scelti con chirurgica precisione. Il silenzio è parte integrante del discorso musicale. Anche nei live freeform, Miles mantiene una posizione di controllo. Come un regista ombra. Il suo è un rituale mentale, teso, rarefatto, quasi alieno.
Davis incarna il demiurgo sempre alla ricerca della novità, cambiando pelle con ogni decennio: cool jazz, modal jazz, jazz-rock, funk elettronico.Domina la musica senza farsi mai possedere, esprimendo attraverso l’eleganza e la modernità un’identità fluida ma controllata, mai ripetitiva, mai nostalgica. Ha influenzato generazioni di musicisti in cerca di rottura, da Herbie Hancock a Radiohead. È l’il visionario contemporaneo, colui che cambia il medium per sempre, ma con metodo e forma.
Il dionisiaco Coltrane, nei live, sembrava posseduto dalla musica mentre suona lunghi assoli senza interruzione, spesso con climax che sfioravano la catarsi. Il corpo, il fiato, il volto: tutto vibra con la sua tensione interiore. Per lui la musica è un’esperienza collettiva e chi vi assiste, racconta di sentirsi “travolto, purificato”.
Il suo live è un rito sacro, un’offerta bruciante. Dopo gli anni ’60, Coltrane si eleva ad asceta: la sua arte diviene una missione spirituale. Studia testi religiosi, medita, digiuna. Ogni nota diventa preghiera, accettazione della dissoluzione dell’ego: non suona per sé, ma attraverso sé verso la fede nell’oltre. Diviene una figura quasi religiosa nel mondo del jazz, venerato per la sua purezza e dedizione, influenzando spiritual jazz, free jazz, afro-futurismo, e musicisti oltre i generi come Pharoah Sanders e Kamasi Washington.
L’arte non serve
Davis è l’artista che plasma il caos, che domina l’innovazione come un architetto della mente, Coltrane è il musicista che si dissolve nel suono, che si lascia attraversare dal divino, come un profeta del cuore. Così che Bitches Brew non è solo un disco. È una Cappella Sistina in vinile. È un universo da attraversare in silenzio, con l’anima attenta. E A Love Supreme? È un’Emmaus sonora, dove forse – tra una nota e l’altra – qualcuno ci riconosce.
Perché alla fine, che si tratti di jazz o di pittura, l’arte non serve a decorare la vita. Serve a rivelarne il mistero.