Stava nella vetrinetta di quella credenza bianca dove io non potevo toccare.
C’era una racchetta che non gli avevo mai visto usare, un po’ di libri. In un ripiano più basso qualche piatto da portata, dei bicchieri.
Poi, nell’ultimo, c’era quel cappello di paglia. Non sapevo come si chiamasse.
Per anni ho solo detto che mi piaceva, senza chiamarlo per nome: dicevo Posso provarlo? e lui rispondevo di no, che si rovinava.
Gli chiedevo dove lo avesse comprato, ma lui era sempre evasivo. Lontano, diceva.
Mi piaceva quella forma, la fascia scura che lo cingeva, e quella paglia così diversa dai cesti dove mettevo i miei giocattoli.
In quelli i vimini erano tutti rotti, scombinati, come fosse impossibile tenerli insieme: ma quel cappello no, era compatto, integro.
Era da adulti.
Lo guardavo come si guardano i dolci, o le luci delle finestre a Natale. Mi sembrava fosse un passepartout per l’età adulta, così distante da me.
E non mi arrendevo. Lo chiedevo e lo richiedevo, e lui diceva sempre di no. Con il sorriso, ma era un no.
Poi, un giorno me lo fece provare.
Fu quando si decise a spolverare quella credenza, che era sempre pulita, solo perché puliva quando io non c’ero.
Quel giorno invece decise di farlo con me presente. Disse che aveva da fare e non poteva pulire in un altro momento.
Lo posò insieme agli altri oggetti sul tavolo, facendo attenzione a non deformarlo.
Lo guardai con interesse, un po’ con soggezione. Lui intanto passava uno straccio sui ripiani.
Era sempre lontano, distante da me. Così irraggiungibile e ora, così vicino.
Non lo toccai per il timore di romperlo, come le ceste dei miei giocattoli con quei vimini così mal intrecciati.
Lo guardai, e lui mi vide guardarlo.
Vuoi provarlo? mi chiese.
Non mi osavo a rispondere.
Me lo mise lui.
Avevo la testa troppo piccola, però lo sentii calzare come fosse su misura.
Era un’idea, più che un cappello.
Si chiama panama, mi disse.
Me lo hai già detto, forse.
Sì, ma non c’è problema, mi rispose. È un nome difficile, disse.
Mi guardai nel riflesso della credenza. Quindi è così che si indossa un panama.
Sembro uno di quei film che piacciono alla mamma, dissi.
Magnum PI? disse lui.
Sì, quello con la Ferrari, dissi io.
Lui indossa tanti cappelli, rispose.
Ci sei andato anche tu in quel posto dove vive lui? gli chiesi.
No, disse.
E dove l’hai preso?
Lontano, rispose.
Mi guardò mentre lo tenevo addosso, poi me lo tolse.
Mettiamolo a posto ora.
Poi quando cresco me lo dai quel panama? Così vado in giro come Magnum PI.
Magari non andrà più di moda, disse ridendo.
A me piacerà di sicuro, risposi.
Lo rimise a posto.
Restò lì tanti altri anni, finché un giorno non lo vidi più.