Ti racconto la guerra

Pubblicato in

Su X c’è un account che consiglio di visitare solo se si è veramente disposti ad aprire gli occhi.

Si chiama Gaza Notification, ed è un account che riporta alcuni video direttamente dall’omonima Striscia.

Lo potete raggiungere da qui, ma consiglio di farlo solo se si è disposti a guardare dentro un genocidio.

Ci sono immagini che non possono lasciare indifferenti. Immagini che distruggono le certezze e fanno sorgere più di un dubbio, a partire dalla logica della nostra civiltà.

A Gaza c’è un genocidio, che spesso è un effetto: quello di una guerra combattuta contro i civili.

Paradossalmente, una roba che diamo per scontata, ma che almeno nel nostro pezzo di mondo non abbiamo mai provato per fortuna sulla nostra pelle.

Sappiamo che le guerre si combattano contro i civili prima che fra militari: eppure, fino a poco tempo fa nessuno poteva descrivere con certezza “come fosse”.

Fra dichiarate formalmente e non, d’altronde ne contano una cinquantina: per essere precisi, 56 secondo la stima di Geopop.

Conflitti di cui spesso sappiamo poco o nulla, e che abbiamo cominciato a considerare come rilevanti dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 che hanno attualizzato il tema della Guerra, per la prima volta dal Secondo Conflitto Mondiale come fenomeno che tocca il territorio europeo.

Ora che la guerra ci tocca da vicino, comincia a farci paura: anche se forse prima di questo triennio non è che l’Occidente avesse ben chiaro cosa fosse.

Alcuni concetti ci sono diventati famigliari con il tempo, e anche con una buona dose di contenuti che hanno permesso di attualizzare un certo modo di raccontarla.

D’altronde, sviluppare un racconto del conflitto inteso come confronto armato fra paesi è diventata un’esigenza concreta, che difficilmente avevamo sentito in passato.

E che ha fatto tornare prepotente la consapevolezza che essa è fenomeno tangibile, concreto e che ha riscontri reali sull’esistente.

L’11 settembre e ciò che ne consegue

L’Occidente aveva avuto un brusco risveglio già all’inizio del millennio.

Con l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono, l’11 settembre è diventato una specie di milestone nella memoria non solo collettiva, ma anche narrativa.

Le immagini ancor oggi restituiscono un immaginario ben definito, che lascia di stucco quanti oggi le guardano e vedono un momento da prima/dopo.

Per fare un test, provate a parlare con chi non era ancora nato quel giorno.

Il senso di distacco fra ciò che ha visto chi c’era e ciò che è stato raccontato è grandissimo, per quanto si possa parlare chiaramente di momento storico, al pari del Crollo del Muro di Berlino.

La storia quel giorno è stata tangibile.

La guerra è apparsa sui nostri schermi in diretta, senza filtro. Una roba che era capitata con meno enfasi per altri scenari bellici, ma senza questa capillarità, garantita da una copertura mediatica realmente globale.

Quando oggi riscorriamo i momenti di quella giornata, tutto è scandito da momenti raccontati da terzi, in particolare giornalisti e giornaliste che hanno messo in piedi dirette di decine di ore.

Dispetto ad altri momenti della storia dove la guerra ha offerto il peggio di sé (penso alle prime pagine dei quotidiani all’indomani del lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki), qui l’effetto dirompente fu proprio dovuto al capillare racconto visivo: un unicum nella storia.

Le prime immagini trasmesse dalla CNN furono al pari di quelle dei traccianti nei cieli di Baghdad, rivoluzionarie: tracciavano però un confine diretto, potremo dire fosse già il perimetro in cui oggi ci muoviamo.

Con un effetto decisamente più straniante delle foto scattate in Vietnam, l’urgenza che comunicava una diretta TV ci riportava alla tangibilità della guerra, facendo raggiungere un picco di tensione che l’asincrono medium fotografico non riusciva a restituire. La morte diventava visibile e istantanea.

Ci fu una polemica piuttosto piccata in Italia qualche anno dopo, e precisamente nel 2008, quando commentando questo fatto a un Blogfest (credo fosse tipo un advcamp, o una roba del genere) un noto pubblicitario definì quell’attacco “Un’idea della Madonna”.

Sul web si trovano ancora tracce di quella polemica, che interessò alcuni dei personaggi più in vista del nascente web italiano.

Lungi da me lasciarmi trascinare in quel vortice polemico (che peraltro fra poco toccherà vent’anni!): ma senza dubbio nel concepire il più grave attacco terroristico della storia, Bin Laden valutò anche cosa sarebbe potuto capitare in termini narrativi.

(Mi perdoni il lettore se faccio un excursus personale, ma sull’11 settembre ho scritto la tesi di laurea triennale con relatore l’indimenticabile professor Mimmo Càndito. Ho un ricordo al proposito piuttosto curioso: durante la discussione della tesi, quello che sarebbe diventato il mio relatore di tesi specialistica, uno dei più grandi luminari che abbia mai conosciuto, il professor Peppino Ortoleva che era parte della commissione, mi fece notare come “La vera domanda che dovremo porci dal punto di vista mass-mediologico non è tanto cosa abbia comportato l’11 settembre, dato che si è svolto nel centro del mondo cioè New York, ma cosa sarebbe successo se fosse stato paradossalmente a Castelnuovo Don Bosco”. Lo ricordo come fosse oggi perché, è un fatto, la super-copertura di contenuti radiotelevisivi fu possibile proprio perché il tutto accadde nella più grande città al mondo. ndr)

Perché l’umanità ottimista di inizio millennio -perlomeno, quella occidentale- non aveva idea di cosa fosse la guerra: e portargliela in casa, deturpandone gli spazi ritenuti più sicuri, era certamente qualcosa che non avrebbe mai lasciato la coscienza collettiva.

Non siamo ancora al racconto di guerra, ma è come in quel momento stessimo per leggere la prefazione.

Amplificare l’adrenalina dell’assassinio

Undici anni fa, Save the Children lanciava una campagna dal titolo If London Were Syria, rintracciabile su YouTube con il titolo Most Shocking Second a Day Video.

La campagna, seguita l’anno dopo da una seconda puntata (Still The Most Shocking Second A Day) riprendeva il format di uno dei più noti contenuti della Rete, Noah takes a photo, descrivendo però la guerra civile siriana traslata in Europa.

La campagna, rilasciata nel 2014, ebbe un eco mondiale per via dello shock di vedere una città inglese trovarsi catapultata in un contesto di guerra.

Un esercizio che, drammaticamente, sette anni dopo alcuni creator ucraini (eterodiretti dal governo, si presume) hanno in un certo senso imitato, per sensibiizzare l’opinione pubblica europea sulla necessità di supportare l’Ucraina contro la Russia.

La simulazione della guerra non era più solamente simulazione, ma esercizio retorico per cominciare a raccontare il conflitto fra nazioni come una possibilità concreta.

Propaganda, insomma, che poteva -può- contare su un altro aspetto essenziale, ossia la finestra sul reale.

Parallelamente, infatti, gli abitanti dell’Unione Europea -e in generale tutto il mondo- hanno cominciato a veder sistematizzato un altro tipo di racconto.

Se nell’immaginario collettivo l’idea che si potesse vivere una guerra torna ad affacciarsi, è grazie alla produzione di contenuti “dal campo”.

Il conflitto russo-ucraino sarà ricordato come un ritorno alle battaglie novecentesche, alle trincee e alla guerra di logoramento.

C’è anche altro. Sui libri di storia sarà raccontato come il conflitto dei droni: miriade di veicoli senza pilota che governati da distanza causeranno morte e distruzione.

Video come questo, diffuso direttamente dagli eserciti, mostrano operazioni

Questa nuova arma diventerà, come visto nel tweet, un mezzo per raccontare la guerra senza intermediazione.

Il pubblico troverà al ritrovato lavoro dei corrispondenti di guerra una serie di finestre sul reale terribili e contemporanee, che mostreranno l’essenza della violenza e del degrado che ogni guerra porta con sé.

Il dietro le quinte servirà ad approfondire l’aspetto più umano, la sofferenza, riempiendo di storie tangibili quelle immagini di morte.

La guerra oggi diventa una narrazione a due velocità. È possibile trovarci l’odore della polvere da sparo e la vita di chi subisce le conseguenze di ogni colpo sparato, di ogni bomba esplosa.

Come capita con i contenuti che ci arrivano da Gaza, anche chi della guerra non ha mai avuto paura oggi può cominciare ad assaporarne il gusto orrido e insopportabile.

Il tutto però mostrato come fosse un contenuto di finzione, montato ad arte per costruire consenso e non solo dare spazio alla cruda realtà.

L’omicidio diventa show, con commenti a favore e contro: una specie di reality show -come fu l’11 settembre, a conti fatti- con vite reali in gioco.

Tweet di questo genere sono centinaia, e spinte dalla politica “libertina” che stanno prendendo piede sulle principali piattaforme. Video così si possono ritrovare un po’ dappertutto, non solo su X ma anche su Instagram o Facebook.

È su Telegram però che video e foto sempre più violenti possono essere reperiti a migliaia. Un festival della saturazione che sta lentamente trasformando lo spettatore più morboso in un bulimico da violenza. Guardare la guerra genera stasi della mente, perdita di contatto.

La guerra si sta anestetizzando nel senso, perché ormai anche il tabù di raccontarne i lati oscuri è stato infranto.

A Gaza muoiono decine di bambini al minuto: vederli parte di un gigantesco flow non li sta salvando.

Fa montare l’indignazione, probabilmente polarizza l’opinione pubblica (e a ragione, visto il disastro umanitario).

Sotto fa covare l’indifferenza che ogni immagine porta con sé, perché quando si abusa, ci si abitua. Fa paura pensare alla guerra come a un ennesimo topic da sfruttare, per quanto la verità possa effettivamente trovare più punti per arrivare a destinazione.

E poi c’è l’AI

Con la diffusione di strumenti di intelligenza artificiale generativa, discernere il vero dal falso è diventato un aspetto decisivo per comprendere l’esistente.

Il problema è che quando si parla di guerra si rischia di costruire realtà che non esistono.

Il meccanismo per cui per qualche ora Mark Violets è stato l’attentatore di Donald Trump, ad esempio.

Quest’effetto straniante può dirsi replicabile all’infinito, se ci si mette a creare immagini finte che imitino quelle che oggi -plausibile- possiamo incrociare sul nostro cammino.

Effetti della disintermediazione, potremo dire.

Oggi la guerra si è trasformata in oggetto raccontabile anche nelle sue parti più complicate, un po’ come capitava quando lo sviluppo del confronto bellico avveniva in spazi delimitati.

A raccontarli potevano essere solo i reporter di guerra. Oggi però i Barzini non esistono più.

Per quanto gli embedded reporter siano ormai sdoganati, l’equilibrio che serve per sviluppare una narrazione di qualità sembra non esser stato raggiunto.

In chiusura è bello citare, a questo proposito, un documento straordinario di dieci anni fa, realizzato dal giornalista Medyan Dairieh di Vice.

A oggi, l’unico documento realizzato da un giornalista occidentale embeddato nell’ISIS.

The Islamic State è il racconto di tre settimane passate insieme ai noti jihadisti per scoprire da dentro come si sia sviluppato uno dei gruppi terroristici più temibili del millennio.

Ancor oggi attuale, il lavoro di Dairieh dimostra come si possa “entrare” nella guerra senza rischiare di banalizzarla a livello narrativo.

In tempi bui, una consapevolezza di cui tener conto.

Raccomandati da Humanist

Francesco Gavatorta
Francesco Gavatortahttps://francescogavatorta.com/
Leggo, scrivo, gioco a Football Manager, guardo il calcio e la boxe e ogni tanto li pratico entrambi. Mi piacciono le storie. Ho fondato Humanist.