Relazioni portatili: dagli amuleti ai Labubu

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Il 25 aprile 2025, in Corso Buenos Aires a Milano, centinaia di persone si sono messe in coda per oltre sette ore.
Nel giorno che celebra la liberazione qualcuno ha deciso deliberatamente di farsi imprigionare.

La colpa è di un pupazzo.

Si chiama Labubu, è alto circa dieci centimetri, ha occhi grandi, orecchie da coniglio, denti aguzzi e un’aria a metà tra il mostriciattolo e il peluche.
È uno dei personaggi più iconici di Pop Mart, il colosso cinese dei designer toys che utilizza l’arte del collezionismo come forma di consumo culturale globale.
La tecnica è semplice e forse già vista: i Labubu sono venduti (per lo più) in blind box, scatole chiuse che non permettono di sapere in anticipo quale personaggio si sta acquistando.
Un gesto semplice, ma potente: aprire la scatola è un piccolo rito. Conosciuto ai più come unboxing, quello che viene fatto dagli influencer con vari prodotti, solo che ha la componente sopresa, uno degli elementi che ha scatenato la Labubu mania.

Labubu nasce nel 2014 dall’immaginazione dell’illustratore di Hong Kong Kasing Lung. Fa parte della serie The Monsters, popolata da creature fantastiche che sembrano uscite da un sogno infantile (o da un incubo gentile?). Negli ultimi anni, grazie anche alla viralità sui social e all’apertura dei primi negozi Pop Mart in Europa, Labubu è diventato un vero e proprio oggetto del desiderio: si colleziona, si scambia, si espone, si cerca.

Al di là delle tecniche di marketing e commerciali, mi sono incuriosito e ho voluto indagare su questa “mania”.
Mi tornano alla mente altre manie: i Pokemon (in particolare con il periodo d’oro dei Pokemon Go e il gioco in alternate reality), le carte di Magic (forse più di nicchia?) e, ancora più indietro, le figurine Panini, le collezioni dei Puffi e le sorprese Kinder tematiche (Ranoplà, Coccodritti…ricordate?). Tutti questi oggetti si collezionavano, si portavano appresso (anche digitalmente), si agganciavano agli zainetti, agli astucci o alle chiavi.

Probabilmente non è giusto ridurli a pupazzetti, feticci o giochi infantili. Credo ci sia qualcosa che ci riguarda più nel profondo, travalica età, ceto sociale, culture: qualcosa che appartiene all’umanità.
È il punto di partenza di questa mia riflessione.

Gli oggetti che ci legano

Già in un mio precedente articolo, sulle scarpe indossate da Papa Francesco alla sua sepoltura, avevo esplorato il potere che gli oggetti hanno di raccontare una storia personale e condivisa. Credo che con i Labubu sia possibile approfondire quella stessa idea da un’altra angolazione: cosa ci dicono gli oggetti piccoli, quotidiani, quando iniziamo a portarceli dietro come se custodissero qualcosa di nostro?

Nella storia umana, monili portatili e carichi di significato hanno sempre avuto un ruolo fondamentale.
Pensate alla parola talismano o anche il termine ex voto, o ancora portafortuna, reliquia: l’umanità ha usato oggetti simbolici per proteggersi, ricordare o legarsi a qualcosa che va oltre, che trascende l’essere umano stesso.

In epoca romana, ad esempio, i bambini indossavano la bulla, un medaglione per allontanare gli spiriti maligni. Le ragazze portavano invece la lunula, un ciondolo a forma di luna crescente, come segno di fertilità e protezione.
Nel Medioevo croci, reliquie e i santini diventavano strumenti di protezione spirituale, mentre nelle culture islamiche si diffondevano gli amuleti con versetti del Corano.
Oggetti come il nazar, l’occhio turchese contro il malocchio, sono tuttora appesi nei portoni e cuciti nei vestiti.

Tutti questi oggetti non erano solo decorazioni, ma relazioni materializzate: un modo per portare con sé il sacro, l’affetto, la memoria.
Nell’idea di tenerli in tasca, metterli su uno scaffale o (ai giorni nostri) scambiarseli nei gruppi online, si cela una tensione relazionale che ci appartiene da sempre: oggetti piccoli per contenere legami grandi.

Amuleti, talismani, reliquie, bambole, miniature: in ogni cultura umana, gli oggetti portatili hanno rappresentato relazioni invisibili, con il tempo, il sacro, gli altri.
Li portiamo addosso o vicino perché ci rassicurano, ci collegano, ci definiscono.

Miniaturizzare per contenere

Mi piace pensare che nella nostra storia e in alcune nostre rappresentazioni abbiamo la tendenza a ridurre di scala ciò che ci supera, forse per poterlo controllare o comprendere.
Gli egizi realizzavano delle piccole statuine funerarie, destinate a servire il defunto nell’aldilà. I larari romani ospitavano statuette degli antenati, protettori della casa. Le kokeshi giapponesi erano (e sono) bambole di legno che portavano augurio e protezione.

Forse i Labubu si possono inserire nella stessa tradizione: piccolo, trasportabile, riconoscibile.
Non serve a nulla, ma sta con noi.
È un oggetto relazionale (o quasi transizionale… ma non azzardo troppo): lo portiamo nello zaino, lo teniamo sul comodino, lo fotografiamo, lo mostriamo.
E così facendo, dice qualcosa di noi.

Antropomorfismi quotidiani

C’è un altro dettaglio importante che mi piace indagare: Labubu ha un corpo umanoide. Due occhi, due braccia, un’espressione. È una figura antropomorfa, come lo sono state nei secoli bambole, idoli, feticci.

Mia figlia Adele fin dai 6 mesi gioca molto più volentieri con le bambole e altre figure antropomorfe piuttosto che con altri giochi.
Ma ho scoperto che le bambole non sono nate come giochi. Sono con l’uomo da circa 4.000 anni e erano, in origine, simulacri rituali.
Non erano giochi, ma oggetti rituali, protettivi, di passaggio. Le pupae romane, per esempio, venivano donate alle dee in occasione del matrimonio.
Rappresentare l’umano in miniatura, è un modo per contenere simbolicamente la vita, darle una forma che ci somiglia e che possiamo portare con noi.
Possiamo quindi immaginare che nell’interazione naturale con le bambole ci sia qualcosa di più di un gioco, che ci sia un frammento di senso a portata di mano.

Quando gli amuleti si collezionavano

In certi momenti della storia, possedere amuleti diventa anche collezionarli. Nell’Antico Egitto, ogni amuleto aveva una funzione specifica, e il corpo del defunto ne veniva ricoperto. Nel Medioevo, le reliquie cristiane venivano raccolte in teche e inventariate.
Nel mondo islamico e nel misticismo ebraico, esistevano raccolte di talismani, testi sacri, oggetti astrologici.
E nel Rinascimento, le Wunderkammer o camere delle meraviglie, raccoglievano reperti naturali, amuleti, oggetti scientifici e religiosi: non solo per possederli, ma per raccontare attraverso di essi una visione del mondo. Ne abbiamo un esempio anche in Italia: lo studiolo di Isabelle d’Este, nel Palazzo Ducale di Mantova

In tutte queste pratiche, l’oggetto era più del suo materiale: era significato, relazione, connessione.

Collezionare per raccontarsi

Il collezionismo moderno nasce con lo spirito di fare ordine tra gli oggetti e raccontare la propria visione del mondo.
Si trasforma nei secoli: dalle Case Museo alle esibizioni dei Labubu più rari su Tik Tok.
Con il tempo, collezionare diventa un atto personale, affettivo, identitario.
Ogni oggetto è scelto, curato, custodito per narrare qualcosa di sé attraverso ciò che si tiene vicino.

Oggi, collezionare pupazzi, vinili, libri, amuleti o figurine trascende il semplice passatempo.
Diventa forma di scrittura silenziosa, racconto in oggetti.
E quando viene condivisa, diventa anche veicolo di comunità.

La forma della comunità

In ogni epoca, sembra quindi che l’essere umano abbia scelto di portare con sé piccoli oggetti non solo per proteggerlo o rassicurarlo, ma per tenerlo in relazione con qualcosa o con qualcuno.

Oggi, dentro l’iperconnessione del nostro quotidiano, che spesso risulta povero di legami profondi, questi oggetti potrebbero tornare a essere strumenti di comunità.
Segni che permettono di riconoscersi, ritrovarsi, raccontarsi.

Ecco quindi una domanda: non era questa anche una promessa iniziale dei social network (e forse più in generale, del web)?
Condividere per aprire ponti. Esporsi per generare ascolto.
Costruire spazi in cui la singolarità non fosse un punto d’arrivo, ma un invito all’incontro.

Invece, qualcosa mi sembra essersi spostato.
Oggi la visibilità spesso prende il posto della risonanza.
Il racconto di sé si irrigidisce in forma di esibizione, anziché farsi occasione di scambio e riconoscimento.

Ma forse, nel gesto semplice di collezionare, portare con sé, scambiare un oggetto che parla, si nasconde ancora una forma possibile di resistenza relazionale?
Un piccolo gesto che ci ricorda che condividere non è solo mostrare, ma mettersi in relazione.

E se tornassimo a condividere davvero?

Condividere, nella sua forma più umana, è offrire una parte di sé perché possa risuonare, aiutare, provocare, nutrire.
È creare le condizioni per l’incontro, è un atto di fiducia, di generosità culturale.
È un modo per dire: “non tengo tutto per me, perché credo che la relazione valga più del possesso”.

Ed è così che siamo arrivati fin qui, come specie: trasmettendo storie, scoperte, emozioni, strumenti, domande.
Non sempre attraverso grandi gesti, ma spesso attraverso passaggi sottili, intimi, umani.

Forse, più che pensare a produrre contenuti in quantità, dovremmo tornare a condividere significati.
Dovremmo provare a stare lontani dal fare rumore per lasciare tracce che possano essere raccolte, rielaborate, trasformate da chi verrà dopo.

Perché in fin dei conti, sappiamo bene che l’evoluzione della nostra specie non è fatta solo di geni, ma anche, e forse soprattutto, di gesti di condivisione.

E ogni volta che uno di quei gesti accade, c’è ancora speranza che la cultura serva a valorizzare quelle differenze che ci uniscono.

Foto di David Kristianto su Unsplash

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Massimo Benedetti
Massimo Benedetti
Dicono che so mettere a proprio agio le persone. Ascolto e leggo molto, scrivo e sono innamorato. Humanist è il mio spazio preferito.