In famiglia, ci siamo spesso divertiti a prendere in giro mio padre per il suo attaccamento a un paio di scarponi da trekking.
Erano i mitici Vendramini, di quelli seri, che ti porti dietro per vent’anni e più.
Li usava solo in montagna, certo, ma li metteva sempre, a volte in modo sensato, altre volte meno. Erano consumati, graffiati, la suola un po’ cotta.
Ma per lui erano le scarpe. Ci aveva fatto la sua strada, e non c’era niente di meglio.
I Vendramini esistono ancora, si sono concentrati più sulle scarpe da moto, ma quando penso al nome mi ricorda l’idea di tenere stretto qualcosa che ci rappresenta.
Perché certi oggetti non si buttano. Non per nostalgia. Ma forse perché sono, in qualche modo, noi.
Ci ho ripensato quando tra tutto ciò che si è scritto e detto della sepoltura di Papa Francesco, ho visto la foto del dettaglio delle sue scarpe ortopediche usate.
Nella bara — oltre al rogito, alle monete, ai paramenti — ha scelto di non indossare le babbucce rosse della tradizione pontificia ma le sue scarpe, quelle di ogni giorno.
Un gesto (insieme agli altri più istituzionali) che mi lascia una domanda più ampia: perché, anche nelle religioni che ci insegnano a distaccarci dai beni terreni, i riti della morte restano così pieni di cose?
Se nulla ci segue nell’aldilà, perché mettiamo oggetti nella bara?
Vi condivido qualche riflessione.
Il dolore ha bisogno di una forma
La morte, per quanto attesa o meditata, resta un’esperienza informe. Un collasso improvviso del senso.
Il rito funebre, allora, può diventare la grammatica minima del dolore.
Una struttura fragile ma necessaria, per non annegare nel vuoto.
E dentro questa grammatica, gli oggetti hanno un ruolo potente, diventano appigli.
Mi vengono in mente le fotografie che mettiamo accanto alla bara, le lettere infilate tra le mani del defunto. I mazzi di fiori o i piccoli oggetti domestiche e quotidiani.
Sono gesti e rituali antichi piuttosto diffusi tra culture. Di fatto, dappertutto si muore.
Nel medioevo si deponeva nella tomba un pettine, un libro, un pezzo di pane. In Giappone si bruciano ancora oggi oggetti simbolici di carta per accompagnare l’anima. In Messico, gli altari dei morti vengono adornati con cibi, strumenti di lavoro, piccoli doni.
L’oggetto, in quel momento, è la traduzione materiale dell’affetto.
Il modo con cui diciamo “mi manchi” senza usare la voce.
Gli oggetti ci somigliano
Viviamo in un’epoca ossessionata dalla performance e dalla visibilità, ma molto di ciò che siamo rimane nelle pieghe dei gesti quotidiani.
E le cose che usiamo ogni giorno — per necessità o abitudine — finiscono per diventare noi.
Le scarpe ortopediche di Papa Francesco raccontano non solo il suo passo, ma la sua coerenza.
L’averle scelte, indossate e volute con sé fino all’ultimo momento è una forma di fedeltà a se stessi.
Un po’ come il bastone di Nelson Mandela, realizzato con un ramo piegato a mano: non uno scettro, ma uno strumento di cammino.
O come il cappello di Giacomo Leopardi, esposto a Napoli: semplice, consumato, non certo un oggetto “letterario” — ma forse l’unico che ci fa immaginare davvero quel corpo fragile e quella mente immensa.
Non tutto si può dire.
E nel silenzio più forte, siamo raccontati meglio da una cosa che dalle parole o preghiere.
L’assenza ha bisogno di tracce
La morte è silenzio. Ma molto spesso è un racconto potente.
Credo che l’assenza venga narrata per renderla più sopportabile.
E gli oggetti sono parte del vocabolario che usiamo per raccontarla.
Nessuno ci si aspetta di portare con sé le proprie cose dopo la morte, ma tutti, in un modo o nell’altro, vogliamo lasciare qualcosa.
Un oggetto, una frase, un’abitudine che resista al tempo.
Non è egoismo. È memoria.
Penso sia il desiderio di continuare a parlare anche quando non ci siamo più.
E in fondo, potrebbe anche essere l’origine di ogni grande o piccola produzione artistica e culturale. O anche solo di atto comunicativo materiale: dai graffiti neolitici agli oggetti lasciati nei loculi moderni, passando per i libri autografi, le lettere, le dediche, i quaderni pieni di appunti.
E allora forse non è un caso se l’ultimo gesto di un Papa è stato proprio quello di non cambiare scarpe.
Non per vanità. Ma per lasciare una traccia. Un oggetto che dice: “Ecco, questo ero io”.
Probabilmente la nostra memoria più vera è fatta così:
di poche cose, ma usate fino in fondo.
Di oggetti senza valore, ma pieni di significato.
Di segni che restano, anche quando non ci siamo più a spiegarli.
Foto di Tanya Prodaan su Unsplash