Cosa significa autenticità?
Potremo tirar fuori le definizioni più autorevoli, per spiegarlo: il problema di fondo, però, è che incapperemo in un problema semantico diffuso, che potremo battezzare Svuotamento.
Oggi svuotiamo di senso le parole: autenticità sta pagando lo stesso destino di Storytelling, un po’ come sta capitando a narrazione con l’aberrante neologismo che ha reso suo sinonimo narrativa (grazie Paolo Fallai per averlo scritto, come modestamente abbiamo cercato di fare anche qui).
Lo Svuotamento colpisce ogni cosa che abbia un senso fondamentale: colpa delle slide di troppi consulenti di marketing?
Colpa dell’erodersi del tessuto intellettuale, propenso più a banalizzare come stupida tifoseria che non a spiegare su basi oggettive e solide?
Sarebbe da indagare il perché lo Svuotamento stia colpendo sempre di più ogni cosa, ma in particolare il nostro vocabolario.
L’ennesimo colpo di scena riguarda un piccolo spot.
Un film pubblicitario che non dovrebbe avere troppo peso specifico nelle nostre vite, ma che l’ennesimo segnale che qualcosa sta cambiando un po’ troppo in fretta.
Quello spot de La Stampa
Gli addetti ai lavori ne hanno parlato abbastanza, su LinkedIn e non solo.
Un 20″ piuttosto concreto, tangibile, con un messaggio chiaro, che puntava a promuovere il nuovo design grafico della storica testata.
La Stampa dal 4 giugno esce in edicola con una nuova veste, e lasciateci, per un attimo, complimentarci per questo nuovo traguardo (chi scrive ha cominciato lì la propria carriera professionale ndr).
Vediamolo, questo spot.
Non vogliamo entrare nel merito della qualità della realizzazione: è uno spot che dice la propria, si muove secondo le sue regole, ha un messaggio.
Tutti però possono notare l’aspetto fondamentale: è stato realizzato con l’IA.
Intelligenza Artificiale come esecutore, non certo come autore (presumiamo), con cui ritrarre una Torino aulica, viva, brulicante di persone felici… e con spazi fusi fra loro come se fossimo in Matrix quando sta cambiando qualcosa.
Piazza Castello che si fonde con Piazza San Carlo che vede all’angolo Piazza Vittorio con la Mole Antonelliana che si sposta dietro uno dei palazzi con i portici che conduce non al Po ma in Piazza Bodoni.
Alberi che spuntano vicino al Cavàl ‘d Brons e il Caffé San Carlo che porta le vetrine a filo dei sampietrini, mentre quattro ipotetici lettori e lettrici camminano con in mano il giornale fresco di tipografia.
I sorrisi stampati in faccia che trasudano felicità, e che ricordano a chi è stato adolescente nei meravigliosi anni ’90 il viso di altri felici abitanti di borghi sereni.

In my eyes
Indisposed
In disguises no one knows
Hides the face
Lies the snake…
Qui la faccia però non la si nasconde: il messaggio è forte e chiaro.
Rational e concept
“C’è un quotidiano di grande tradizione ma aperto al futuro, vicino ma che sa guardare lontano. Un quotidiano fiero dei propri lettori che ogni giorno vogliono capire i perché del mondo“.
E quei lettori, di cui la testata va fiera, sono però finti.
Non sono figuranti, attori: no no, sono proprio proiezioni. Non esistono neanche in qualità di essere umani che fingono.
Sono semmai il frutto di una proiezione, di un prompt scritto da un abile prompt designer che ha scelto di costruire come fossero archetipi di una matrice junghiana l’idea che la testata ha delle persone che la leggono.
Un copy ottimamente scritto, che trova fondamento in quel che in gergo chiamiamo rational.
Non siamo qui a far lezione di come si propone un’idea creativa, ma ecco: se c’è un bug (e in questa vicenda, ne registriamo due), il primo è qui.
Perché se c’è un rational in questo progetto, allora non si può ipotizzare che parta da un assunto fondamentale.
Lo immaginiamo:
“I lettori siano destinatari della nostra missione ultima. Sono tenutari del diritto a leggerci.
A loro, come vuole la missione profonda del giornalismo, dobbiamo render conto.
Al loro desiderio di verità, noi rispondiamo. Lo facciamo rimanendo fedeli alla nostra storia e identità, da sempre.“.
Con un rational (ipotetico) così, la risposta a livello concettuale sarà (sempre ipoteticamente) “Facciamo vedere voi lettori, fedeli a ciò che siamo: torinesi nell’anima e fedeli al nostro essere coerenti con la nostra storia“.
Proviamo a ipotizzare il processo logico che ha condotto a questa execution perché, da qualsiasi parte la si guardi, non si ritrova il come si possa arrivare all’idea di creare i propri lettori.
Problemi di budget? Difficoltà a realizzare una produzione “dal vivo”?
Impossibilità a coinvolgere realmente i propri lettori?
Possono esserci migliaia di motivazioni valide per preferire l’IA. Il problema è che non c’è continuità di base con quello che si vuole dire.
Il messaggio profondo
Se vuoi parlare di lettori cui ti rivolgi e vuoi promettere di costruire quel famoso patto con loro su cui ti basi per informare, che è una missione nobile e complicata, non puoi pensare di raccontare tutto questo con una proiezione.
Automaticamente, a diventare una proiezione è il tuo messaggio.
Una promessa di verità che fai a chi non c’è nel mondo reale.
Che è una sfumatura impercettibile, dato che nel caso avessi scelto attori avresti comunque costruito una messa in scena.
Qui però siamo oltre: perché quella Torino non esiste, non esistono neanche le persone, esiste solo l’idea.
Un’idea che però è basata sulla verità, come valore non derogabile.
Come posso raccontare un’idea con qualcosa che non esiste nel suo essere tangibile?
Perché anche nella messa in scena un attore o un’attrice scelgono di metterci dentro il proprio bagaglio esperienziale. L’interpretazione è il frutto di un lavoro di fusione fra ciò che voglio dire e come posso dirlo io, fra lo spazio e il tempo che mi prendo per mostrare quel dato messaggio.
Qui salta tutto per aria, perché l’IA non interpreta: l’IA simula.
Salta il patto con cui l’individuo si fa veicolo -in questo caso attraverso le arti performative- di un messaggio profondo.
Non è la prima volta, non sarà l’ultima di un IA spot
Sono tanti i tentativi con cui le aziende hanno provato a raccontarsi attraverso contenuti totalmente generati con l’IA.
Sei mesi fa fece soggetto la multisoggetto di Coca Cola con spot totalmente realizzati così.
Le reazioni furono piuttosto diversificate.
C’è stato chi criticava, e chi invece apprezzava. Chi annunciava un nuovo mondo, chi invece ammoniva che la nuova era non sarebbe stata migliore della precedente.
Lo spot comunque ebbe ciò che voleva: visibilità.
Non vogliamo entrare nel dibattito più “markettaro”, anche se lasciamo volentieri un consiglio su chi seguire: Mizio Ratti (autore fra l’altro di una newsletter molto interessante).
Ma il tema della simulazione rientra anche qui.
La necessità di raccontarsi obbliga a sviluppare micro-narrazioni (quali sono gli spot) o macro-narrazioni (come possono essere progetti più estesi) che necessariamente per configurare narrazioni reali devono basarsi sull’esperienza.
E se l’esperienza sparisce, o si sintetizza in una simulazione, può dirsi esperienza?
Possiamo parlare di storie (almeno, in un meccanismo top-down) se ciò che vediamo è sintetico sin dalle fondamenta del racconto?
Una domanda senza risposta
Non siamo ancora in grado di dare una risposta.
I videogame oggi generano già esperienze immersive (sdoganate serenamente nel linguaggio comune così) che si basano su universi fittizzi.
Attenzione però: si simulano azioni in mondi che -apertamente- vengono sviluppati su un patto narratore-fruitore secondo i criteri di verosimiglianza. Come in un film, che comunque spesso diventa veicolo per relazioni 2.0 in purezza (è il caso dei massively multiplayer online role-playing game, o MMORPG).
L’esperienza sintetica però ora sta facendo il salto, come un virus: precisamente da quando è uscito un altro spot.
Nel momento in cui esce un video dove il frutto del prompting nega di essere frutto del prompting, stiamo assistendo allo Svuotamento.
Non solo lessicale, ma anche del percepito e di ciò che ci aspettiamo si possa considerare vero e falso, reale e fittizzio… Ed estendendo il perimetro, narrazione ed esercizio retorico svuotato di significato.
Il prompting sta diventando il nuovo scrivere per l’autore: ma il risultato è diverso da un libro, da un film, da un podcast.
Il risultato è un esercizio visivo e uditivo ancora difficile da articolare, perché nasce non dall’esperienza umana ma dalla ricerca algoritmica di risorse che permettano a una macchina di comporre delle immagini o dei suoni.
Esattamente come quei lettori sono pseudo-archetipi, perché non sono realmente collegati all’immaginario di chi ha composto il prompt.
Il “Signore elegante con i baffi grigi lunghi portati come nell’800, il capello grigio con la riga di lato, sorridente con gli occhiali e vestito elegante, camicia azzurra, cravatta blu e completo blu notte” dello spot de La Stampa è il frutto di una fusione di stimoli trovati in Rete.
Quegli stessi stimoli possono esser stati creati da una macchina, che ha scandagliato le pagine web per trovare ciò che è stato catalogato come “baffo portato come nell’800”, “completo blu notte” e via discorrendo, in un riutilizzo delle esperienze reali che generano un Frankestein narrativo.
Siamo pronti?
In un mondo che non sa ancora regolamentare il rapporto con tanti tipi di contenuti o legiferare sul tema delle fake news, è difficile rispondersi.
Relativizzando il concetto di reale e di esperienza, semplificando le parole e abbandonando la scrittura autoriale in favore del prompting, lo Svuotamento sta intorpidendo il senso critico.
Ed è un rischio così serio che fa paura pensare che anche questo piccolo spot de La Stampa, tutto sommato, possa aprire la finestra della riflessione su mondi così articolati.
Una cosa è sicura: in un contesto dove narrativa e narrazione vengono barbaramente banalizzati e confusi (caso italiano) e dove c’è difficoltà a far arrivare il racconto del reale in maniera agevole (caso occidentale), lo Svuotamento rischia di minare la nostra civiltà dalle fondamenta.
Una civiltà che, dal basso, stiamo già raccontando come un esperimento visivo: basta aprire TikTok al proposito.
Ma questa è, come si suol dire, un’altra storia (che affronteremo in un prossimo articolo).
Finché siamo in grado di raccontarle, almeno…