(Alla TV) anche i ricchi piangono

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Ci sono libri che sembrano esaurire un determinato argomento: a volte perché i primi a svilupparlo compiutamente, a volte per la loro qualità, a volte per altri bizzari motivi. Quando si parla delle classi dominanti, un volumetto che ha fatto la storia in varie discipline come sociologia, economia e storia del costume è senza dubbio La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen.

Si tratta di un libro di oltre un secolo fa – la prima edizione è del 1899 – ma appare ancora di grandissima attualità introducendo per la prima volta concetti come il “consumo vistoso” o le “trophy wife” (non usa questo termine, ma ne parla diffusamente) e subito vengono in mente oggi il matrimonio del boss dello shopping online o la moglie del presidente degli Stati Uniti.

Ma andando oltre la sociologia o il gossip, se oggi guardiamo alle serie TV, che ormai sono  la narrativa popolare del presente, proviamo a vedere come raccontano la cima della nostra piramide sociale.

Nei lontani anni ’80, quando ancora si parlava solo di telefilm o di telenovelas, circolava anche in Italia uno show messicano dal titolo Anche i ricchi piangono che, al di là del discreto successo presso le appassionate del genere, ha contribuito, solamente con il proprio titolo, a decine di copertine di giornali e persino a uno sfortunatissimo manifesto politico per una proposta di riforma fiscale.

Raccontare (anche in TV)

Oggi il racconto seriale televisivo è decisamente cresciuto, può contare su budget molto più elevati, sceneggiatori di grande esperienza e qualità, attori e registi cinematografici che si prestano volentieri alla televisione e su location prestigiose, offrendo ad un pubblico sempre più ampio e anche più trendy, un intrattenimento molto più raffinato rispetto ai telefilm e alle telenovelas degli anni ’80.

Ma – e qui veniamo finalmente al punto – al netto di questo evidente salto di qualità formale, non sembra esserci stata una grande evoluzione nel modo in cui viene raccontata la “classe agiata” di oggi.

Questa viene ancora descritta come una massa di isterici e capricciosi, incapaci di comprendere il mondo che li circonda e privi della minima empatia verso il resto della piramide sociale. Sembra una affermazione esagerata, ma guardiamo ad alcuni esempi.

Partiamo dalla recentissima serie White Lotus, ambientata in meravigliosi resort di lusso ai quattro angoli del pianeta (Hawaii, Taormina, Koh Samui) e che ha sempre per unici protagonisti i fortunati fruitori di questo genere di turismo di élite, con il puro ruolo di supporto, dei “normali” individui del personale di servizio di questi villaggi.

Ebbene, in tutte le tre stagioni finora prodotte (reperibile non in TV ma su Prime Video), i diversi vacanzieri, sono sempre coinvolti in intrighi e vicende drammatiche, spesso con risvolti criminali e vengono raccontati sempre in modo assolutamente caricaturale, aderendo perfettamente al vecchio concetto delle “aspettative di ruolo” quello per cui ci si aspetta che i ricchi siano pigri, capricciosi e disposti a tutto per difendere la propria posizione.

Basta osservare la famiglia al centro della terza stagione. Partendo dal padre, imprenditore di successo, che si scopre aver preso numerose “scorciatoie” per raggiungere il benessere, ma non ha il coraggio di raccontare alla famiglia del fallimento della sua carriera. Venendo poi alla moglie e madre, incapace di relazionarsi col mondo e con la vita senza l’aiuto degli psicofarmaci. 

Al figlio maggiore, tutto muscoli, sesso e denaro e nulla più. Per poi arrivare al figlio minore, alla ricerca disperata di sé stesso, incerto se imitare il fratello maggiore o la sorella. E infine quest’ultima, che da ricca ragazza americana ha deciso di “espiare la sua colpa” trasferendosi per un anno in un monastero buddista in Thailandia, ma dopo una sola notte alle prese con il loro cibo spartano e i letti scomodi, rinuncia alla sua decisione e decide di tornare alla più comoda vita americana in “first class”.

Ma White Lotus non è un caso isolato di rappresentazione delle classi superiori come bambini capricciosi, amorali e disconnessi dal mondo. Pensiamo a un racconto come Billions, che si apre con il procuratore distrettuale di New York, principale antagonista dell’intera serie, impegnato in pratiche BDSM che vive normalmente come intermezzo della propria stressante carriera.

Da lì, per sei stagioni, assistiamo alle mille eccentricità di un gruppo di persone al vertice dell’economia e della giustizia americana, che si comportano in modo spregiudicato sia nella vita privata che in quella professionale, misurando i propri comportamenti solo in termini di denaro e potere.

Certo si potrebbe dire che gli americani sono da sempre un po’ ossessionati dal denaro e sono convinti che la morale protestante giustifichi (quasi) ogni cosa ai predestinati al successo. Ma questo storytelling unidirezionale si trova anche altrove.

Basta guardare ai cugini britannici e alla serie The Gentlemen, dove un Guy Ritchie, tornato in gran forma, racconta gli intrighi con cui una famiglia aristocratica in decadenza si deve alleare con i peggiori criminali dei bassifondi per difendere il casato e le proprie fortune.

Anche qui assoluta amoralità e tanti eccentrici capricci dei componenti della nobile famiglia, con in più l’interessante “twist” dei delinquenti che, come tanti proletari inglesi, guardano alle classi elevate e ai loro comportamenti con grande desiderio di emulazione.

Infine, per uscire dall’ambito anglo-americano, possiamo citare la serie norvegese The Billionaire Island, che racconta la storia di una famiglia diventata decisamente benestante negli anni attuali di boom economico del Paese.

E qui vediamo la figlia minore adolescente che riceve un motoscafo rosa per il suo compleanno; il figlio maggiore fuggito a Hollywood, ma che torna a casa per chiedere alla famiglia un finanziamento per salvare il film e la sua parte; il padre, “casalingo”, che passa le giornate nella loro enorme villa modernista a cucinare pesce e farsi le canne; e poi la madre, potente donna d’affari, che guida con pugno di ferro un impero del commercio ittico; infine la figlia intermedia, apparentemente l’unica equilibrata, che lavora nell’azienda familiare e cerca solo di introdurre pratiche più sostenibili per l’allevamento dei salmoni.

Potremo continuare con tanti altri esempi presi dall’infinita produzione televisiva odierno, e forse troveremo anche qualche punto di vista leggermente dissonante. Ma la sensazione generale è che non si siano fatti grandi passi avanti rispetto alle telenovelas degli anni ’80 (che a loro volta attingevano a piene mani dai feuilleton e dai romanzi borghesi dell’Ottocento). Insomma in TV come in tutta la narrativa popolare i ricchi devono per forza recitare un ruolo negativo o almeno ai confini del parodistico.

Interessante però è il contrasto con quanto avviene parallelamente nel mondo forse più spontaneo (e bottom up) dei social, dove non si può non notare una diffusa ossessione per gli status symbol e per il consumo vistoso ai limiti del pacchiano, dall’hashtag #richkids, alle starlettes radiofoniche che “evitano come la morte gli uomini con la Panda” ai figli di papà ludopatici che ostentano bottiglie di champagne millesimato – vere o presunte – bevute come limonata.

Molte potrebbero essere le spiegazioni del perché la narrativa popolare fatichi ancora a raccontare con equilibrio le classi agiate, ma tutte sembrano convergere verso l’eterna e universale “funzione consolatoria” della narrativa popolare, come spiega chiaramente Umberto Eco nel suo Il Superuomo di Massa:

Da questo punto in avanti il romanzo popolare […] giocherà su caratteri prefabbricati, tanto più accettabili e graditi quanto più noti, in ogni caso vergini di ogni penetrazione psicologica, come lo sono i personaggi delle fiabe.

Perché, in fondo, le classi agiate sono da secoli immutabili in cima alla piramide sociale, come sostiene l’economista italiano Guido Alfani in un suo recente volume accademico molto ben documentato sul tema e intitolato non per nulla Gods Among Men – “Dei tra gli uomini” (titolo preso in prestito dal filosofo francese del Trecento Nicole Oresme).

E forse sta proprio lì il punto, che – anche in un’epoca sempre più secolarizzata come la nostra – facciamo ancora fatica a misurarci con gli dei.

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Karim Mélaouah
Karim Mélaouah
Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla pubblicità e le culture giovanili, grazie ed essa entra nel mondo delle agenzie di comunicazione da cui non è ancora uscito. Lavorando sempre come Brand Strategist in grandi network internazionali, boutique creative ed ora in una delle big 4 globali della consulenza. Ha tenuto diversi corsi e conferenze in vari atenei e collaborato a due volumi collettivi sulla comunicazione e ha da poco pubblicato Forza Assente un libro sulla magia e l’arte del raccontare. Ha passato una vita a far foto ai concerti Metal, per poi convertirsi alla “street photography” con cui tiene acceso un occhio alle mode e alle tendenze della strada e di tanto in tanto ottiene anche qualche pubblicazione