Mi ha sempre affascinato la letteratura e la capacità dell’uomo di comunicare attraverso una lingua.
L’uomo è un animale che vive di narrazioni e dell’esigenza di raccontare e raccontarsi e, a volte, queste narrazioni hanno il potere di trascendere il tempo e lo spazio, compiendo viaggi lunghissimi.
Le voci del passato, negli occhi del presente
Quando in classe leggo l’Iliade e l’Odissea mi capita di sorprendermi a pensare alla moltitudine di ragazzi (e alle assai meno ragazze) che nei secoli hanno ascoltato quei medesimi versi da quando, circa 3000 anni fa, un aedo ha abbozzato per la prima volta un canto sulle gesta di Achille o sul ritorno di Odisseo.
Osservo i miei ragazzi, da quello più affascinato a quello distratto, dalla studentessa diligente che appunta ogni mia parola all’amica che sta pensando all’interrogazione di mate dell’ora dopo, e immagino i tanti loro coetanei che migliaia di anni fa hanno ascoltato i medesimi versi in modo affascinato o distratto, coinvolto o superficiale.
In un modo o nell’altro, con i loro aspetti positivi e negativi, quei versi hanno plasmato innumerevoli generazioni di persone e l’hanno fatto attraverso un unico strumento: la cura.
La letteratura come gesto di cura
Penso che comporre letteratura sia un immenso atto di cura.
Scrivere un libro richiede di operare una attenta selezione nel linguaggio, che deve essere studiato e approfondito, e perché richiede all’autore di rivelare molto di sé, del proprio mondo, dei propri valori e della propria vita interiore.
Ma, soprattutto, penso che la letteratura sia legata alla cura perché dal momento in cui una storia, un pensiero, un sentimento vengono plasmati in poesia o in altra forma sopravvivono solo perché altri se ne prendono cura, li custodiscono e li trasmettono.
Funzionava così per l’epica greca arcaica, rinarrata infinite volte da cantori diversi e funziona così a maggior ragione da quando è stata inventata la scrittura. Quelle parole così antiche hanno attraversato secoli e millenni perché generazioni e generazioni di persone le hanno custodite, raccontate, ricopiate.
Oltre il genio: chi tiene viva la parola
La nostra cultura, in gran parte figlia del Romanticismo, tende a privilegiare il momento creativo, vedendo nell’artista il genio della creazione.
Un piccolo demiurgo creatore di mondi (cui spesso bastava solo un libro), e sicuramente questo aspetto è fondamentale; ma… c’è un ma.
Ogni volta che ho, in qualche modo, a che fare con un’opera letteraria, mi piace ricordare anche l’importanza del “momento del prendersi cura” che, per me, è la somma delle energie spese dalle persone per tutelare quell’opera e difenderla dal tempo.
Mi affascina pensare al monaco che, nel suo scriptorium gelido d’inverno e afoso d’estate, ricopia i testi di Virgilio e Orazio, forse non capendo nemmeno con cosa abbia a che fare, ma sapendo con certezza l’importanza del proprio compito.
Chissà a cosa sta pensando l’operaio veneziano che nel XVI secolo pressa i caratteri su fogli, lavorando alle prime edizioni a stampa; quanto tempo ed energie impiega il moderno commentatore che cura l’ultima ristampa, arrovellandosi il cervello sulla traduzione di un verso incerto?
Tutto grazie a “un” libro
Quando “maneggiamo” un’opera letteraria non stiamo solo entrando in relazione con chi l’ha pensata e composta, ma anche con tutti coloro le cui vite, in un modo o nell’altro, hanno avuto a che farci.
Un microcosmo di umanità, in gran parte silente, che attraversa il tempo, sfidando le sue leggi.
Ecco perché avere a che fare con la letteratura, soprattutto in qualità di fruitori, è così importante: non solo per i contenuti e i valori che essa trasmette, ma anche perché rappresenta una delle più incredibili e collettive esperienze di resistenza alla morte e all’oblio che l’uomo abbia escogitato.
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